La guerra è finita e in tutto il mondo tra le mille difficoltà la vita ricomincia cercando di dimenticare l’orrore al quale il mondo ha assistito.
Nel 1946, a Lussemburgo, l’organizzazione del Mondiale viene affidata al Brasile, quel paese dove più di ogni altro il calcio è festa, allegria, colori e samba. Nel 1948 in una Londra che riportava ancora fresche le ferite della guerra si svolgono i giochi Olimpici: lo sport riporta la vita lì dove negli ultimi anni c’è stata solo morte e distruzione. Vince la Svezia in finale con la Jugoslavia: una nazionale quella svedese in crescita e che negli anni 50 annoverava tanti campioni.
Le qualificate al mondiale sono 16, ma tre di loro si ritirano prima dell’inizio della competizione. Oltre alla Turchia e alla Scozia, curiose sono le circostanze che portano al ritiro l’India al suo primo (e unico) mondiale: in India il calcio si gioca a piedi nudi nonostante i tanti infortuni ai piedi, ma il regolamento del mondiale non prevede questa possibilità e così la squadra si ritira.
Brasile 1950 è il primo (e unico) mondiale senza finale: le quattro vincitrici dei gironi si sarebbero incontrate in un girone all’italiana. Il favorito d’obbligo è il Brasile padrone di casa che in squadra ha campioni come Zizinho, Friaça, Ademir e Jair.
I gironi iniziali portano a due clamorose eliminazioni. La prima è quella dell’Italia, campione del mondo in carica, ma purtroppo decimata dalla tragedia di Superga dell’anno precedente. L’Italia per paura di quell’aereo che aveva cancellato il Grande Torino, affronta un viaggio di tre settimane in nave e viene sconfitta subito dalla forte Svezia; a nulla vale la vittoria con il Paraguay. La seconda è quella dei maestri del calcio, ovvero l’Inghilterra, che per la prima volta accettano di affrontare i rivali in un mondiale: loro, i Leoni d’Albione, consapevoli della loro forza subiscono una clamorosa umiliazione dai dilettanti degli Stati Uniti. A Belo Horizonte finisce 1-0: è la prima pesante sconfitta per i maestri inglesi. Si arriva così al girone finale che si gioca tra Rio De Janeiro e San Paolo.
E già dalla prima giornata si capsce l’esito di quel mondiale: Brasile-Svezia 7-1 con quaterna di Ademir e Uruguay-Spagna 2-2. La seconda giornata è molto simile alla prima: Brasile-Spagna 6-1 e Uruguay-Svezia 3-2 con doppietta negli ultimi minuti di Míguez. In due partite il Brasile segnato 13 reti. E così il mondiale che non doveva avere una finale, si trova comunque ad avere la partita decisiva che assegna il titolo: e qui inizia la leggenda o forse lo psicodramma e la tragedia più grande della storia sportiva brasiliana.
Al Maracanà quel giorno, 16 luglio 1950, ci sono 220 mila spettatori; in tutto il Brasile forse sono in 200 milioni attaccati alle radio per sentire finalmente quelle tre parole: “Campeao do Mundo“. Al Brasile basta un pareggio, l’Uruguay deve vincere, ma in fondo nessuno ci crede e forse nessuno vuole rovinare la festa di un popolo dove il calcio è vita. In tutto il Brasile si sta già festeggiando un Carnevale speciale, lo stadio è tappezzato di cartelloni che omaggiano i campioni, la Federcalcio ha già regalato ai giocatori un orologio recante la scritta del sogno “Campeao do Mondo”. E in questo clima di festa la partita ha inizio.
Il primo tempo è dominato dal Brasile che però non riesce a segnare di fronte al catenaccio Uruguaiano. A inizio secondo tempo segna Friaca e la festa può veramente avere inizio. L’Uruguay torna lentamente a centrocampo con l’obiettivo di prenderne il meno possibile; il Brasile invece vuole accelerare, vuole la terza goleada. Ma ciò non accadde.
Al minuto 66 pareggia Pepe Schiaffino, al minuto 80 Alcides Ghiggia effettua un tiro dalla fascia sinistra che sorprende Barbosa e porta in vantaggio la Celeste. L’errore di Barbosa segna un popolo e il portiere non si riprende più, condannato per sempre ad essere il responsabile di un dramma. Finisce così, il risultato non cambia. Brasile 1 – Uruguay 2. Uruguay campione del mondo.
Ciò che succede dopo quel fischio finale è dramma, ma anche storia dell’umanità, storia di un popolo. Non ci crede nessuno, ma è vero, il Brasile ha perso. In tutto il Brasile cala un tragico silenzio. Alcune persone muoiono per attacchi di cuore, altre si uccidono, altre devastano ogni cosa dalla rabbia.
Una storia che si lega in modo indissolubile a quel dramma che vive tutto il popolo brasiliano: è la storia di Obdulio Varela, capitano di quell’Uruguay campione del mondo. Varela è protagonista in campo e forse è uno dei pochi che guardando negli occhi i brasiliani dopo il gol di Friaça pensa che l’Uruguay può vincere. Lui che dopo il gol perde tempo, discute con l’arbitro di fronte a uno stadio che vuole altri gol e solo dopo qualche minuto con calma olimpica torna a centrocampo: in quel momento Varela capisce che può vincere. E infatti vince e alza la coppa Rimet davanti a un popolo in lacrime.
Quella notte Varela rimane a Rio, si mischia nella folla e capisce che ha distrutto un sogno. È felice perché è campione, ma piange anche lui nel vedere bambini, adulti, vecchi in lacrime perché in fondo lui è il colpevole principale. In quella notte Varela capisce più di tutti cos’è il calcio in Brasile. In un bar viene riconosciuto dai brasiliani e assieme a loro beve qualcosa: si unisce a chi vuole bere per dimenticare un dramma, vede con i propri occhi la disperazione. Una sua frase celebre dice:
“Noi avevamo rovinato tutto e non avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava davanti a quella tristezza”
Obdulio Varela, l’eroe buono di una notte tragica
Si chiude cosi il mondiale brasiliano, inizia il dramma di un popolo dove il calcio è religione. Il giorno successivo il giornale titola due semplici parole che esprimono tutto: NUNCA MAIS (MAI PIU’). Servono otto anni, altri otto lunghissimi anni e un ragazzino di nome Edson Arantes do Nascimento perché il sorriso perso quella notte torni a splendere nei volti del popolo brasiliano. Ma questa è un’altra storia