È tra mille polemiche che nel 1956 a Lisbona viene assegnata l’organizzazione della settima edizione dei Campionati del Mondo: sarà il Cile ad ospitare il torneo che torna così in Sudamerica dopo 12 anni. La favorita d’obbligo in questa assegnazione era l’Argentina e per questo motivo la scelta “cilena” fece scalpore. La storia dice che l’opzione Argentina fu fortemente osteggiata dal Brasile che preferiva l’organizzazione nel paese amico Cile.
Fu il terremoto più potente della storia, morirono 3000 persone (o forse più) e molte città furono rase al suolo. Il Cile e il suo orgoglioso popolo non si arresero e nell’estate 1962 il mondo del calcio si dette appuntamento in quella terra così lontana.
Le qualificazioni non fanno vittime illustri: le squadre più forti sono tutte presenti e il 30 maggio 1962 lo spettacolo può avere inizio. Sarà spettacolo? Forse no, il mondiale cileno passerà alla storia come il mondiale più scadente dal punto di vista tecnico ma soprattutto come il più violento. I gironi eliminatori vedono le qualificazioni dell’URSS di Jascin e della Jugoslavia nel gruppo 1, Brasile e Cecoslovacchia nel gruppo 3 e Ungheria e Inghilterra nel gruppo 4. Viene eliminata l’Argentina che non gode dei favori del pubblico in Cile. Viene eliminata la Spagna che si presenta in Cile tra le favorite con Gento, Di Stefano, Suarez e Puskas (si, quello della grande Ungheria).
Fin da subito è il mondiale del calcio violento: si contano 15 infortuni gravi, tra cui il fuoriclasse Pelè e Lev Yascin. Dubinski per i postumi di un fallo contro la Jugoslavia morirà qualche anno dopo.
Non abbiamo citato il gruppo 2: qui ci sono l’Italia allenata da Paolo Mazza e Giovanni Ferrari, la Germania Ovest, il Cile e la Svizzera. Si qualificano Cile e Germania: il mondo assiste alla vergogna più grande che il calcio ricordi, la Battaglia di Santiago di cui parleremo dopo, il match più violento della storia. I quarti di finale vedono lo show di Garrincha contro l’Inghilterra e le vittorie di Cecoslovacchia contro Ungheria e Jugoslavia contro Germania. L’ultimo quarto a Santiago vede in campo Cile e Russia: altra caccia all’uomo, infortunio a Yascin e Cile in semifinale.
Finisce 4-2 con doppietta di Garrincha e doppietta di Vavá: il sogno cileno finisce qua. Nell’altra semifinale davanti a seimila spettatori (record negativo per una semifinale) la Cecoslovacchia di Masopust supera 3-1 la Jugoslavia e raggiunge per la seconda volta la finale mondiale. La finale di Santiago del Cile vede i cechi andare subito in vantaggio con Masopust: ma questo Brasile è troppo forte anche senza Pelè. Segnano Amarildo, Didi e Vavá. 3-1 e Brasile campione del mondo.
La partita più violenta della storia del calcio si gioca il 2 giugno del 1962 all’Estadio Nacional de Chile di Santiago: in campo Cile e Italia. Una partita che inizia fuori dal campo quando due giornalisti italiani, Ghirelli e Pizzinelli, denunciano la povertà e il sottosviluppo del paese che ospita i mondiali e della sua gente. Si scatena la guerra.
Immaginate il clima che accoglie l’Italia allo stadio. Fischi, insulti, offese, succede di tutto. La partita ha inizio: l’arbitro è l’inglese Aston (che ha già arbitrato la prima del Cile). Passano 7 minuti e in un clima irreale Leonel Suarez rompe il setto nasale a Maschio: viene espulso per proteste l’azzurro Ferrini che viene scortato fuori dalla polizia cilena.
Lo stadio è una bolgia irripetibile e Aston non può far altro che spingere il Cile alla vittoria. L’Italia in nove resiste fino al minuto 74 ma poi il Cile segna le due reti che eliminano l’Italia. Non era un’Italia forte, era un’Italia nel pieno di quella crisi che porterà alla disfatta di Middlesbrough con la Corea del Nord, ma quella non fu una partita.
Cile 1962 passerà alla storia come il mondiale più brutto e più violento. Ma nella bruttezza emerge il Brasile, forte, completo e pieno di fenomeni.
I suoi dribbling fecero il giro del mondo e un popolo si innamorò per sempre di quel numero 7. Lo vinse l’alcool, la depressione e morì da solo in una sedia a rotelle. Ma il ricordo di Manè durerà per sempre. Il suo epitaffio dice:
“Qui riposa in pace colui che fu l’allegria del popolo, Manè Garrincha”.