Vincenzo Maenza è stato uno dei più grandi dello sport italiano: oro a Los Angeles, oro a Seul, argento a Barcellona, Hall of Fame dello sport mondiale.
Un campione eccezionale, un grande uomo, una leggenda dello sport mondiale, uno dei più grandi protagonisti della storia della lotta.
La mia è stata un’infanzia difficile, sono stato abbandonato dalla madre e mi ha cresciuto nonna Provvidenza. A 11 anni pesavo solo 27 kg e ogni tanto andavo nel salone di barbiere di mio padre ad aiutarlo. Un giorno entrò il padre di Marco Bernabei, un ragazzo che faceva lotta (e purtroppo morì giovane) e disse a mio padre : “Perché non lo porti a fare lotta?”. Il giorno dopo ero in palestra a Faenza, la mia città: è iniziata così la mia storia con la lotta. E pensa che in una delle prime finali esordienti ho perso proprio contro Marco.
Si, proprio così. Lo sport è crudele. Per raggiungere certi livelli, devi trascurare tutto, le amicizie, la famiglia. Passavo 8 mesi per anno all’estero. Mi allenavo 8-9 ore al giorno. Nel nostro sport in più c’è l’attenzione al peso e oltre agli allenamenti c’è da seguire un programma alimentare intenso. Il mio peso forma era 55kg e gareggiavo a 48 kg, questo significava tanti sacrifici. La lotta è fatica, abnegazione ma se vuoi farti strada è l’unica via, se vuoi vincere é l’unica strada. E io ho vinto.
Nel 1977 ho vinto il primo titolo italiano, poi ripetuto anche nel 1978 e 1979. Nel 1978 vinsi nello stesso anno campionato juniores e seniores. Poi nel 1979 i primi successi internazionali: secondo ai giochi del Mediterraneo, quinto agli europei e qualificazione ai Giochi.
Partecipare a un Olimpiade per uno sportivo è qualcosa di indescrivibile perché senti che hai raggiunto l’obiettivo più bello per ogni atleta. Di Mosca ricordo molto il clima di paura e gli innumerevoli controlli. Erano gli anni dei boicottaggi e si percepiva la tensione. Sono arrivato settimo ma fu un’esperienza importante per il mio futuro
Già nel 1982 avevo avuto il primo successo importante ai mondiali militari di Caracas, in Venezuela. Questo successo mi dette convinzione per l’Olimpiade americana. Feci una bella preparazione, avevo un team forte e una squadra forte, avevo raggiunto una gran preparazione atletica. E l’oro olimpico fu la conseguenza. In finale ho dominato il tedesco Scherer, sconfitto in 1’59 per manifesta superiorità. Ero felicissimo, ma era un Olimpiade a metà e le voci dicevano che avevo vinto solo perché mancavano i paesi dell’Est
Sono stati anni duri, massacranti, ma sono stati gli anni apice della mia carriera. Ho avuto anche momenti in cui volevo abbandonare perché lo stress mentale e fisico è altissimo, la pressione dei giornalisti continua e tu devi sputare il sangue per primeggiare. Tanti in queste fasi mollano e cedono, ma io no.
Il 1987 è stato un anno eccezionale: oro ai Giochi del Mediterraneo, oro agli Europei di Tampere. Ero favorito ai Mondiali di Clermont Ferrand ma, durante la semifinale con un cubano, ho sentito una forte fitta intercostale (frattura cartilagine). Alla fine della semifinale che avevo comunque vinto ho dovuto fare una serie di saune per rientrare nel peso. Ho avuto una crisi per la fatica e il dolore ed è stato Giancarlo Gritti (altro lottatore) a convincermi a tornare in sauna. La mattina dopo ho fatto un’infiltrazione e sono sceso nella materassina. A 30 secondi dalla fine ero ancora in vantaggio ma poi il sovietico mi rovesciò e conquistò il mondiale. Ero molto deluso perché in condizioni normali avrei stravinto.
Seul è forse il ricordo più bello, l’Olimpiade perfetta, l’organizzazione impeccabile e la mia forma strepitosa. In semifinale ho incontrato Bratan Tsenov, bulgaro con cui avevo perso nove volte su undici.
Ma questa volta non potevo perdere. Dovevo anche rispondere alle critiche di quelli che dicevano “ha vinto a Los Angeles perché non c’erano i sovietici”. E ho vinto.
In finale con il polacco Glab sono partito fortissimo e sono andato subito 2-0. Poi ho controllato e all’unica passività sono sfuggito alla sua presa con uno scatto dalla materassina. A trenta secondi dalla fine ho fatto il terzo punto. E ho vinto l’oro, un’emozione indescrivibile. Avevo dimostrato di essere il più forte.
Si, proprio così. Mondiali in casa, dovevo vincere. C’era tanta pressione, tanti giornalisti ma anche la consapevolezza che giocavo in casa ed ero il più forte. E invece succede quello che non mi era mai successo in vent’anni di carriera. In semifinale, dopo un ricorso, ho sconfitto il sovietico Kucherenko ed ero in finale con il bulgaro Marynov ( non ci sarebbe stato confronto!): con le procedure del ricorso sono passati altri trenta minuti e mi era rimasta solo un’ora e mezza per tornare al peso. Dovevo ridurre 2.2 kg. Ho iniziato le corse con i maglioni di lana e le continue saune per cercare di rientrare. Ho avuto una forte crisi e per cinque minuti sono dovuto uscire dalla sauna: sono stati i cinque minuti decisivi. Gli ultimi 15 minuti ho avuto 5 massaggiatori che mi massaggiavano per cercare di recuperare e togliere tutto il superfluo. Ma niente: la bilancia ha detto 48,200 e sono eliminato dal mondiale. Faticavo a reggermi in piedi e vengo assalito dai giornalisti che vogliono sapere che è successo. L’allenatore mi ha portato via da un’uscita secondaria. Ostia rimane il grande rammarico della mia vita sportiva. Ho avuto tutto dallo sport, non questa vittoria a cui tenevo tanto.
Un’altra Olimpiade perfetta, un’altra organizzazione meravigliosa. Sono arrivato in ottima condizione e soprattutto sereno perché, in fondo, non avevo più nulla da dimostrare. Ho vinto facilmente tutti gli incontri e in finale mi aspetta Kucherenko. Il peso forma di Kucherenko era 70, gareggiava in una categoria 22kg inferiore ed aveva dieci anni in meno. Lui è partito forte e ha ottenuto i punti decisivi. Ho provato in tutti i modi e sono stato penalizzato dal nuovo regolamento sulla passività: ma non sono riuscito a recuperare lo svantaggio. Alla fine ho perso ma onestamente lui era più forte e ha meritato il titolo. Non ho rimpianti.
Si, è cambiato tutto. Dalla tensione e i controlli di Mosca alla felicità e alla festa di Barcellona. Dalla guerra fredda a un nuovo clima di pace e serenitá. Perché, in fondo, l’Olimpiade è nata come simbolo di pace e deve essere gioia e festa. Seul e Barcellona per me sono il massimo che lo sport possa regalare
Mi aveva contattato Gattai, presidente del CONI, per fare il portabandiera in onore della mia storia sportiva. Mi stavo allenando perché volevo chiudere la carriera con la quinta Olimpiade. Ma giocando a calcetto tra amici ho rotto i legamenti. Non me ne sono accorto subito, anzi per un po’ di mesi ho continuato ad allenarmi. Poi la diagnosi e l’annuncio del ritiro nel 1995.
La squadra è fondamentale, per me vale un buon 80%. È la squadra che ti fa diventare un campione e tutti sono importanti. Il cuoco, il magazziniere, il massaggiatore, tutti hanno un ruolo fondamentale per arrivare ad essere ai vertici. Armonia e affiatamento sono la base per vincere. Poi io ho avuto due figure per me decisive per i miei trionfi: l’allenatore bulgaro Gyuro Gyurov e il commissario tecnico Vittoriano Romanacci.
Si, dal 95 al 2000 ho allenato a Faenza, poi le giovanili della nazionale. Ho cercato di insegnare ai giovani l’amore per questo sport così bello e così appassionante.
E invece non è così: la lotta è arte, è tecnica, è corpo elegante. La lotta greco-romana unisce la forza fisica all’eleganza del gesto atletico, rispettando un rigido codice d’onore di condotta del combattimento. Nella greco-romana non si usano le gambe, ma solo braccia e busto. Non c’è violenza
Mi ero appena ritirato e mi ha chiamato il padre di Andrea, chiedendomi se potevo essere l’allenatore di suo figlio. Sono andato in palestra e ho seguito un allenamento in cui ho visto un metodo che non mi piaceva. E così ho detto al padre di Andrea che se vuole che io faccia l’allenatore di suo figlio, lui non dovrà più interferire con gli allenamenti. È nato così il talento di Andrea che ai primi campionati italiani vince per manifesta superiorità, lui che si allena a Imola, contro gli atleti allenati dai tecnici della nazionale. Ma lui aveva Maenza come allenatore. Poi Andrea passerà con i tecnici della nazionale e a Pechino dominerà. Ma il suo primo allenatore fu Vincenzo Maenza.
Una federazione che va nei paesi dell’est a cercare atleti a cui dare la cittadinanza e nel frattempo trascura i suoi giovani per me sbaglia. Purtroppo oggi si vogliono i risultati immediati e per questo si cercano gli atleti già formati. Non si perde tempo nel far crescere i giovani e dedicarli allo sport e alla vittoria. Poi sono i risultati che portano i soldi e con gli atleti già formati il risultato è possibile. Ma quali sono gli stimoli che dai alle società e ai nostri giovani? Non ce ne sono.
Si, Jury Chechi
Pertini mi disse :”E tu così piccolo, come hai fatto a vincere le Olimpiadi?”. Gli risposi “ E lei così piccolo come ha fatto a diventare un grande Presidente della Repubblica?”. Per me Pertini è ancora lì che ride pensando a questa battuta. Un incontro indimenticabile.
Io nella vita ho avuto tutto dal punto di vista umano e sportivo. Ho una famiglia felice, la moglie Roberta, eccezionale compagna di vita fin dai tempi in cui mi allenavo otto mesi all’estero e lei doveva aspettarmi, non ho problemi economici perché ho saputo investire bene ciò che la lotta mi ha fatto guadagnare. Oggi i miei sogni sono per i miei figli, che si realizzino e che siano felici.
È questa la storia di un ragazzo semplice che con la fatica e i sacrifici è arrivato fin lassù, nell’Olimpo dello sport e ci è arrivato vincendo, vincendo e basta. La storia di un campione, la storia di un uomo che fa parte della Hall of Fame, la storia di uno dei grandi d’Olimpia, la storia di un mito dello sport, quello vero e autentico,
Grazie di tutto Vincenzo Maenza!
Ph copertina: https://www.larucola.org/2013/09/23/vincenzo-maenza/
1 Comment
Vincenzo sei stato e sei un grande….inarrivabile e’ normale che questi omini ti mettono da parte ; se trovi tempo leggi i loro curriculum vita……se esistono,