L’intervista a Claudio Chiappucci, indimenticabile campione degli anni 90, eroe di un ciclismo che ci faceva emozionare.
Da piccolo giocavo a calcio, fino a 14 anni. Il calcio è stata la mia prima passione e lo è ancora (faccio ancora partite con amici e per beneficienza). Volevo giocare attaccante di fascia, ma l’allenatore voleva farmi giocare sulla difensiva. E così lasciai il calcio.
Mio padre mi indirizzò alla bici e al ciclismo e iniziò così la mia carriera
Duri, difficili, ma belli perché facevo quello che mi piaceva. Essere atleta e sportivo comporta dei sacrifici. A me interessavano solo due cose, lo sport e la scuola. Alle altre cose ci potevo rinunciare.
Mio padre mi parlava di Coppi e Bartali e delle loro imprese epiche. Io avevo un modello che rispondeva al nome di Bernard Hinault.
Con il passaggio al professionismo cambia tutto. La passione diventa un lavoro. Devi dimostrare a te stesso e ai tifosi, devi dare anima e corpo per raggiungere i risultati richiesti.
Ci sono stati anche momenti difficili, ma non ho mai voluto mollare. I momenti difficili nello sport ti plasmano e ti fanno diventare ancora più forte. Per arrivare in alto devi partire dal basso.
È il momento in cui mi sono fatto conoscere e sono diventato Diablo. Quella fuga alla prima tappa l’ho voluta e l’ho cercata, l’ho creata io. Volevo vestire la maglia gialla, volevo la maglia a pois che tanto rappresentava il mio modo di essere ciclista. Ho perso quel tour per un solo motivo, l’inesperienza. Era un mondo ancora più grande di me.
Per me la Milano-Sanremo era una corsa mitica, di quelle che hanno segnato un po’ la storia. Vincerla per uno scalatore è quasi impossibile. Ma a volte i sogni impossibili diventano realtà. Ho attaccato nel Turchino a 140km dal traguardo. Eravamo in 10. Sembrava una fuga impossibile e invece alla fine sul Poggio ho staccato Sorensen, l’ultimo ad arrendersi. È stata l’ultima edizione in cui la Milano Sanremo è stata vinta con una fuga da lontano, dal Turchino a Sanremo.
Sestriere è un’impresa che va al di là dell’immaginario. È un’impresa non possibile e come tutte le imprese impossibili è avvenuta anche un po’ per caso. Ho attaccato alla prima salita e sono stato davanti da solo per sette ore. Non c’erano gli auricolari, non c’erano tutte le informazioni che ci sono oggi. Sapevo che dietro chi mi seguiva a turno cedeva e si eliminava ma non sempre avevo una chiara idea dei distacchi.
In sette ore di fuga, da solo, pensi a tutto: pensi alla gara, pensi a dove sei, pensi che ti possono venir a prendere.
Durante la salita a Sestriere, l’ultima dei cinque colli, anche Indurain cedette e perse più di un minuto. Con due chilometri in più il Tour sarebbe stato stravolto, ci sarebbe stata un’altra storia, dal finale diverso. Quel giorno sono stato straripante.
Ero il più forte, era la più bella ciliegina che mancava per coronare la mia carriera. E la vittoria sarebbe stata strameritata. Purtroppo quel giorno ci sono state incomprensioni con la squadra, è mancato l’appoggio della squadra. Peccato perché ero il più forte.
Sicuramente il Sestriere e la Milano-Sanremo.
La vittoria a Corvara in volata contro Indurain.
Non ho dubbi, il mondiale di Sicilia.
Per i ricordi che mi legano, il Sestriere.
Il Gavia, il ricordo del 1988, la neve. Lì ho capito cosa significa la sofferenza.
In quei momenti devi raschiare il barile e attingere tutte le forze. Devi tirare fuori tutto, anche quando pensi di non farcela. Sono momenti sportivamente drammatici perché ti rendi conto che stai buttando via una stagione. Ma anche in quei momenti si impara a diventare grandi.
Sarebbe stata un’altra storia e avrei vinto. Posso comunque dire di averci provato sempre, fino all’ultimo ma attaccare e staccare Indurain non era facile. Lui nelle cronometro di 60-70 km era assolutamente imbattibile e inavvicinabile. Ma io ci provavo sempre, cercavo di dare sempre di più e non ho rimpianti.
Si, ci vediamo e ci sentiamo spesso anche in occasione delle Gran Fondo. Ci presentano spesso come i duellanti. Abbiamo scritto belle pagine di ciclismo.
È stata una bella rivalità che andava dalle corse a tappe alle corse in linea. È stata una rivalità che ha fatto bene al ciclismo perché ha avvicinato ancor più la gente al nostro sport. Da questa rivalità ne ha sicuramente guadagnato Indurain. Ma rimane un duello bello, che ha fatto parte della storia italiana del ciclismo.
La passione dei tifosi per me è stata motivazione. Quando vedi le salite piene di folla, le persone che ti incitano, l’amore della gente, l’adrenalina si scarica sui pedali. Io amavo la gente e amavo stare tra la gente. Non scappavo da notorietà e passionalità . Davo tutto per i tifosi, per farmi apprezzare, per essere carismatico. E ancor oggi le persone per strada mi salutano, mi riconoscono mi apprezzano. Il segno che il mio modo di essere, quello che sono stato in quegli anni ha fatto innamorare tanta gente. E sono fiero di questa gente.
Sicuramente Vincenzo Nibali. C’è una foto bellissima di un piccolo Nibali vicino alla mia ammiraglia al termine di una gara a Messina.
Tre sono le cose importanti. La prima è la passione, quello che fai deve piacere a te e non ad altri. Devi amare quello che fai. La seconda è il sacrificio: i giovani spesso hanno la tendenza a fare il minimo e non basta. Devi andare oltre i tuoi limiti e lì ci arrivi con il sacrificio. La terza devi aver voglia di imparare dai tuoi capitani: troppo spesso i giovani d’oggi credono di essere nati imparati, ma non è così. Io dai miei capitani Roche e Visentini ho imparato tantissimo. Un detto dice: “Impara l’arte e mettila da parte”, vale anche nello sport.
Mio padre e mia madre sono stati fondamentali. Mi hanno dato tanto, tutto. Mi hanno insegnato il sacrificio e mi hanno lasciato libero di fare ciò che volevo. Hanno creduto in me e io ho fatto il possibile per dare loro soddisfazioni. Tanto del mio successo lo devo a loro.
Sono una persona fortunata. Nella mia vita ho realizzato tutti i miei sogni. Oggi sto vivendo bellissimi momenti di vita. Lo sport mi ha fatto perdere parte della gioventù e oggi la voglio recuperare. Faccio ancora tanto sport, mountain bike, corsa, calcio ma soprattutto voglio provare cose nuove, vivere nuove esperienze. C’è sempre spazio nella vita.
” non contano i passi che fai ma le impronte che lasci”
A volte nello sport, ma anche nella vita, non contano solo le vittorie. Contano i segni che lasci e contano l’amore e la passione che lasci alla gente. Io nello sport ci ho provato sempre e in questo modo la gente mi ricorda e mi ama ancora oggi.
Grazie Claudio Chiappucci per averci fatto emozionare, gioire, sognare!
Ph copertina:https://it.wikipedia.org/wiki/File:Claudio_Chiappucci,_Sestriere,_Tour_de_France_1992.jpg