1995, Sudafrica, mondiali di Rugby: una delle pagine più belle e significative del grande libro dello sport.
Il Sudafrica arriva dal periodo più buio della sua storia, quello segnato dall’apartheid e dalle sue assurde leggi razziali. Nel 1994 viene eletto presidente Nelson Mandela dopo tanti anni di prigionia a Robben Island.
Ma il rugby in Sudafrica è lo sport dei bianchi, gli Springboks (le antilopi) sono il simbolo di quella popolazione ricca e forte che regna in Sudafrica. I neri del Sudafrica non tifano questa squadra, a Soweto e nelle carceri gli Springboks non sono amati dal popolo nero.
La fine dell’apartheid e l’avvento di Mandela cambia la storia del mondo ed anche la storia della sport. Mandela capisce l’importanza del rugby per unire la popolazione e comprende come lo sport possa ancora una volta essere un meraviglioso strumento di pace.
A due mesi dall’elezione Madiba chiama il capitano Francois Pienaar e gli trasmette il suo sogno.
Inizia così il percorso che unisce una squadra al suo popolo: allenamenti aperti al pubblico, la visita alla prigione di Robben Island, la canzone NKosi Sikelele, inno della popolazione nera, imparata a memoria. Durante il ritiro pre-mondiale il presidente si presenta agli allenamenti, poche parole:
“Avete l’opportunità di fare una gran cosa per il Sudafrica e di unire la gente. Ricordate solo questo, che tutti noi, neri o bianchi, siamo con voi”.
Nelson Mandela
E il mondiale può iniziare con i sudafricani che sconfiggono l’Australia nell’incontro inaugurale a Città del Capo di fronte a 50 mila entusiasti spettatori. Vengono sconfitte facilmente anche Canada e Romania.
Nei quarti di finale il Sudafrica affronta le Samoa Occidentali, finisce 42-14 e gli Springboks sono in semifinale. A Durban c’è la Francia: finisce 19-15 e il sogno di un popolo inizia a diventare realtà.
Il 24 Giugno alle ore 15 all’Ellis Park di Johannesburg scendono in campo il Sudafrica, gli Springboks e la Nuova Zelanda, gli All Blacks. Due scuole di rugby, una rivalità lunga quasi 70 anni.
È giusto ricordare i nomi di coloro che scesero in campo quel giorno: nomi che hanno scritto la storia del rugby. Per il Sudafrica André Joubert, Japie Mulder, Hennie le Roux, James Small, Joel Stransky, Joost Van Der Westhuizen, Os du Randt, Chris Rossouw, Balie Swart, Hannes Strydom, Kobus Wiese, Rubén Kruger, Francois Pienaar, Mark Andrews e Chester Williams, l’unico nero. Per la Nuova Zelanda: Glen Osborne, Jeff Wilson, Walter Little, Frank Bunce, Andrew Mehrtens, Graeme Bachop, Olo Brown, Sean Fitzpatrick, Craig Dowd, Robin Brooke, Ian Jones, Mike Brewer, Josh Kronfeld, Zinzan Brooke e Jonah Lomu.
Un rumore assordante di un aereo scalda l’atmosfera, la scritta che porta è “Good Luck Bokke”, buona fortuna Springboks. In tribuna c’è lui, l’artefice del nuovo Sudafrica, il realizzatore di un sogno mondiale: Nelson Mandela.
Entra negli spogliatoi per dare la carica ai suoi giocatori, Pienaar lo ricorda come un momento meravigliosamente emozionante.
La partita non è bella. È una sfida di calci piazzati, nessuna meta. Tre calci di Stransky, tre calci di Mehrtens e i tempi regolamentari finiscono 9-9. La tensione è altissima. Nei supplementari un altro piazzato porta avanti gli All Blacks, ma ancora Stransky pareggia, 12-12.
Si festeggia in tutto il paese da Città del Capo a Durban, da Port Elizabeth a Soweto, il simbolo più forte della lotta all’Apartheid. E festeggiano tutti, bianchi e neri.
La premiazione è una delle immagine iconiche dello sport, una di quelle che ci fa amare ed emozionare
Madiba consegna il trofeo a Pienaar accompagnandolo con poche parole:
“Grazie per tutto quello che avete fatto per il nostro paese”.
Nelson Mandela
È una storia meravigliosa, raccontata nel film “Invictus” da Clint Eastwood e nel libro “Ama il tuo nemico” di John Carlin.
È la storia di un mondiale di rugby, ma anche la storia di un paese e la storia di un uomo straordinario, Nelson Mandela un uomo nato cento anni fa e che ha lasciato un segno indelebile nella storia.
E quel giorno in quel magico pomeriggio di Johannesburg a Ellis Park era lì, con la maglietta verde e il cappellino verde protagonista di una delle pagine più belle del libro dello sport