Dino Meneghin è una leggenda dello sport italiano, il più grande della storia del basket. Ha vinto 12 scudetti, 7 coppe dei Campioni, un campionato Europeo e tantissimi altri trofei. Ma oltre alle vittorie è un simbolo di impegno, determinazione, amore per lo sport, voglia di vincere. Dino Meneghin e quel numero 11, per sempre. Lo abbiamo incontrato a Milano, nella sede del CONI.
Dino, solitamente inizio l’intervista parlando dei primi anni di carriera, con te invece parto da qualche settimana fa. Forum di Assago, 19 Novembre, Olimpia Milano – Maccabi Tel Aviv (parleremo ancora del Maccabi) e la maglia numero 11 ritirata per sempre. Che emozioni hai provato quella sera?
Quando Ettore Messina mi ha chiamato per propormi questa serata ero onorato, ma mi aspettavo una serata normale. Non avrei mai pensato a una così forte emozione, è stato bellissimo, è stato toccante. E’ stato come celebrare un compleanno in famiglia: c’era Armani, c’erano i miei amici e c’era il pubblico. Una serata indimenticabile
Con la storia torniamo indietro di 55 anni. Era il 1964 quando inizia la storia del più grande della storia del basket italiano
A volte la vita è fatta di coincidenza. Io sono nato ad Alano di Piave nel bellunese ma a 8 anni mio padre per lavoro si è spostato a Varese, una città che viveva di basket. Un giorno ero a vedere una partita in una palestra e Nico Messina, allenatore delle giovanili della Ignis Varese mi vede tra gli spettatori e mi dice di iniziare a correre. Faceva freddo e cosi iniziai a correre nella palestra con un cappotto. Mi disse semplicemente: “Domani vieni ad allenarti”. E’ iniziato tutto così
Ed è iniziato tutto con scarpette di un colore particolare
Si, a mia madre piaceva il rosso e quando le dissi che avrei iniziato a giocare a basket andò subito a comprare un paio di scarpe nuove, rosse. Non sapevamo che quel rosso era il colore dell’Olimpia Milano, la squadra rivale di Varese. Iniziai così. Per quegli anni devo ringraziare Gianni Asti che allenava la seconda squadra di Varese e che credeva molto in me
Avevi un idolo in quegli anni?
Non avevo grandi idoli. Il primo anno giocai con la seconda società di Varese (Robur et Fides) e seguivo i giocatori dell’Ignis. Mi piaceva Toby Kimball, aveva il numero 11. E quando a fine stagione lasciò Varese mi chiesero se volevo l’11. E cosi iniziai la carriera con quel numero 11. Poi c’erano gli Harlem Globetrotters e con loro un tale Meadowlark Lemon: lui mi fece innamorare ancora di più del basket
Anno 1968-1969, la prima grande pagina di sport di Dino Meneghin. Quali i tuoi ricordi di quell’annata?
Eravamo una squadra completamente rinnovata. Era arrivato dal Messico Manuel Raga, un fenomeno, c’erano Ottorino Flaborea, Aldo Ossola e poi tanti ragazzini. Ci davano tutti per spacciati. Alla prima partita vincemmo a Cantù, il derby più sentito dopo quello con Milano, e iniziarono a guardarci con maggiore attenzione. Alla fine vincemmo lo scudetto. A Varese c’era un entusiasmo pazzesco. Ti sentivi parte di quella città che viveva di basket. E in quell’anno capii che potevo fare qualcosa di grande nel basket
Anno 1969-1970, Aza Nikolic e la prima Coppa dei Campioni
Aza Nikolic ha portato professionalità e disciplina. Si lavorava duro, non c’erano altre strade. Eravamo veri professionisti: Aza curava il timing, gli schemi, le posizioni. All’inizio l’ho sofferto parecchio, era maniacale. Aza poi ci ha dato la dimensione europea che ci mancava. Quell’anno arrivammo in finale di Coppa Campioni: giocavamo a Sarajevo contro il CSKA Mosca, l’Armata Rossa, quando era davvero l’Armata Rossa, la squadra del potere. Fu una bellissima finale e fu una splendida vittoria
A Varese hai giocato altri 10 anni vincendo scudetti e partecipando a 10 finali di Coppa Campioni consecutive
Furono anni bellissimi, anche di amicizia con i compagni di squadra. Il momento più bello è sicuramente il primo scudetto per le emozioni e la partecipazione della città. Erano poi gli anni delle grandi sfide contro Milano: era la città di provincia contro la grande città. Per noi era la finale: se vincevi quella avevi mezzo scudetto in tasca (all’epoca non c’erano i playoff). Le 10 finali di Coppa Campioni dimostrano quale grande mentalità europea avevamo raggiunto, un record difficile da battere
Un compagno di squadra che fece storia: Bob Morse
Io lo chiamavo Juke-box: tu gli davi palla e lui tirava da tre e segnava. Arrivò per sostituire Manuel Raga, un autentico idolo a Varese. Bob era un giocatore straordinario che ha dimostrato in quegli anni quanto era forte. Aveva una serietà professionale unica. Un aneddoto simpatico su di lui è che appena arrivato in Italia beveva solo latte: gli abbiamo insegnato anche a bere il vino e dopo qualche anno ha iniziato a fare corsi di sommelier
Nel 1981 il passaggio a Milano: uno dei colpi di mercato più discussi del basket italiano
Avevo 30 anni e Varese voleva ringiovanire la squadra. Avevo proposte da Venezia e da Milano. Alla fine scelsi Milano per due motivi: da un lato era una squadra che voleva vincere e una società molto blasonata, dall’altro per me era importante la vicinanza a casa visto che la famiglia era a Varese. Per i varesini diventai un traditore, i milanesi mi accolsero con freddezza
A Milano è subito storia, è subito scudetto
Il primo anno a Milano fu molto difficile. Mi infortunai al menisco in precampionato e tutti mi dettero per vecchio e non piu decisivo. Mi allenai molto, anche da solo, per recuperare: volevo dimostrare che potevo esser ancora utile nonostante le critiche ricevute. Rientrai verso la fine dell’anno e iniziammo a vincere. E a fine stagione vincemmo il campionato, la seconda stella per Milano. Mi sentii subito parte integrante di quella società, di quella squadra ed anche di quella città: ero felice perché non avevo deluso i tifosi e chi aveva creduto in me
Prima di parlare dei successi con l’Olimpia Milano, chi è per te Dan Peterson
Dan Peterson è colui che mi ha dato la seconda possibilità di carriera sportiva. A lui devo tantissimo. Mi ha regalato altri 14 anni di carriera, mi ha aperto occhi e mente. E mi ha regalato quella tranquillità di saper gestire la mia esperienza e metterla al servizio della squadra e della società. Con Dan avevo la leggerezza e la serenità per divertirmi e giocare bene. Ma tutti gli allenatori che ho avuto sono stati importanti
Cosa ti hanno insegnato gli allenatori?
Giancarlo Primo in nazionale mi ha insegnato ad essere un ottimo difensore, Aza Nikolic mi ha insegnato la professionalità, Sandro Gamba l’etica del lavoro, Bosha Tanjevic l’importanza dell’esperienza, Dan Peterson mi ha regalato una grande seconda opportunità
Gli anni di Milano sono caratterizzati da una bellissima rivalità sportiva contro Caserta: la grande città del Nord contro il basket che si affacciava a Sud
Sinceramente non ho mai visto quella sfida come Nord e Sud: Caserta era semplicemente l’avversario da battere. In quelle partite giocavi al massimo perchè loro erano fortissimi: c’erano Oscar, Gentile, Dell’Agnello, Pietro Generali. Erano partite bellissime e molto tese, anche se emotivamente si sentiva meno di un derby con Varese
Una pagina di sport meravigliosa di quell’Olimpia è la notte del Palatrussardi: Olimpia Milano – Aris Salonicco
Quella notte nasce tutta da una pessima partita giocata a Salonicco. Ricordo l’ambiente infernale del palazzetto, ricordo che siamo entrati tre volte e tre volte abbiamo dovuto uscire perché in campo arrivava di tutto. Dopo quella sconfitta di 31 punti ricordo allenamenti durissimi prima del ritorno, ma noi eravamo convinti di ribaltare il risultato. Il nostro obiettivo era semplice: recuperare un punto al minuto. Penso comunque che quella partita l’hanno persa loro: hanno pensato di amministrare, hanno gestito male il vantaggio che avevano. Quella partita però rappresenta più di altre lo spirito dell’Olimpia, lo spirito di non darsi mai per vinti. Una partita che andrebbe fatta vedere a tutte le selezioni giovanili per comprendere fino in fondo lo spirito Olimpia
Una delle squadre storiche del basket italiano con “i tre vecchietti”: McAdoo-Meneghin-D’Antoni.
Diciamo che avevamo tanta esperienza, piu di 100 anni in tre! Mike era l’allenatore aggiunto, Bob McAdoo aveva l’esperienza tecnica e faceva tantissimi punti, io ero la difesa e il gioco di squadra. E con l’esperienza sapevamo gestire le situazioni e avevamo la capacità di concentrarsi nei momenti decisivi
Losanna, 2 Aprile 1987: Milano è Campione d’Europa, un’altra pagina di sport di una carriera memorabile
Ricordo che qualche giorno prima mi infortunai ai gemelli. Ho giocato grazie a una puntura di antidolorifico. Dovevo marcare Kevin Magee, uno davvero forte. Fu una partita tiratissima. Ricordo benissimo l’ultima azione: eravamo +2 e McAdoo mi passò la palla. Io proprio in quel momento sento un dolore agli adduttori e sbaglio il canestro in terzo tempo. Loro hanno la palla della vittoria ma Jamchy sbaglia il tiro da tre. Ricordo la sofferenza, ma ricordo la gioia per il risultato e per una vittoria splendida. E ricordo Bob McAdoo che non si rende conto che la partita è finita e continua a palleggiare fino a che Premier non le salta sulla schiena per fermarlo
Dino Meneghin non è stato solo Varese o Milano, ma è stato anche Italia: 272 presenze, 2845 punti. Quali sono le emozioni quando si indossa la maglia azzurra?
Quando giochi in un club rappresenti la città, quando giochi per la nazionale rappresenti un intero paese. Ricordo sempre un episodio del torneo giovanile “Albert Schweitzer” di Mannheim, avevo 16 anni. In tribuna c’erano i nostri connazionali che facevano il tifo per noi: loro erano in Germania per lavoro. Il giorno dopo ci hanno accompagnato in stazione e salutandoci ci dissero: “Salutateci l’Italia, ci manca”. Questo è il valore della nazionale che mai potrò dimenticare. Ad ogni partita guardavo in tribuna e se vedevo magliette azzurre o bandiere tricolori pensavo: “oggi gioco per loro”. E chi gioca in nazionale deve capire che è stato scelto tra tanti e che deve dare tutto per giocare bene
Nantes 1983: Italia campione d’Europa e Dino Meneghin miglior europeo dell’anno
Eravamo una squadra forte in tutti i settori. Quell’Europeo si giocò poco dopo la conclusione del campionato. Siamo arrivati in piena forma e abbiamo finito in piena forma. Le abbiamo vinto tutte. Italia-Spagna in Francia, una storia che poi è stata tramandata da padre in figlio quando Andrea ha vinto l’europeo nel 1999. In quella nazionale eravamo tutti grandi amici: poi ci incontravamo da avversari in campionato ma tra noi c’era vera amicizia e vero rispetto
Pagine di Sport racconta spesso storie Olimpiche: tu hai partecipato a quattro edizioni dei giochi, cosa ha significato per te partecipare a un’Olimpiade.
L’Olimpiade è il villaggio, la cerimonia, non è la partita in sé, la partita non cambia rispetto ad altre partite. Cambia tutto ciò che ti circonda. In pochi metri quadrati hai tutto il mondo, tutti gli sport. L’Olimpiade è l’incontro del mondo. La sensazione più bella? Quando entri alla cerimonia d’apertura: tutti ti applaudono, tutti sorridono. Sei davvero nel centro del mondo con lo sport
In una carriera così lunga ci sono state tante vittorie, ma anche ovviamente tante sconfitte. Qual è la sconfitta che vorresti rigiocare e quanto è importante la sconfitta?
Tutte le sconfitte non le accetti, tutte le sconfitte fanno male perché hai buttato al vento ore di allenamento. Dopo la sconfitta in spogliatoio c’è sempre silenzio, tutti dentro di loro pensano cos’hanno sbagliato, cosa potevano fare meglio. La sconfitta che vorrei rigiocare è senza dubbio la finale di Coppa Campioni contro Cantù a Grenoble nel 1983. Ho segnato zero punti, come mai nella mia carriera. Non c’ero con la testa in una partita cosi tanto attesa dai tifosi, era come fossi rimasto a Milano. I miei compagni di squadra non mi hanno detto niente ma fu una sconfitta bruciante. Avevo fatto dieci finali a Varese, dovevo essere quello con esperienza e invece fallii completamente
Come si riparte dopo una sconfitta?
Con l’allenamento, l’allenamento è il primo passo per ripartire. Serve un allenamento duro per recuperare il morale, serve carica agonistica con allenamenti molto energici. Anche se alcuni allenatori, come Bosha TAnjevic, fanno gli allenamenti più duri…dopo le vittorie!
Qual è il compagno di squadra piu forte con cui hai giocato?
Impossibile rispondere. Ho giocato con troppi campioni e con troppi uomini con la U maiuscola
E gli avversari più forti?
Anche qui ne avrei tanti, ma ne ricordo tre. Vladimir Tkachenko, alto 2,20 e molto veloce. Cresimir Cosic, il mio idolo, poteva giocare in 5 ruoli diversi. E infine Arvydas Sabonis: l’ho incrociato a fine carriera, era davvero forte
Nel corso della tua carriera hai visto il basket cambiare
Si, ci sono stati cambiamenti graduali a cui ho dovuto adattarmi. Il tiro da tre poi ha stravolto il basket. Io amo il gioco organizzato, il gioco corale, in cui ognuno ha il suo ruolo: quella è la musica perfetta. Oggi a volte conta più l’individualità: non c’è più l’orchestra perfetta, ma c’è una jazz band
In alcune interviste tu parli dell’importanza dell’amicizia, sia a Varese, sia a Milano
L’amicizia è fondamentale, non deve esserci invidia o gelosia. Poi certamente ognuno cerca di primeggiare. Quando si è in campo è importante capire che non devo essere io l’eroe, ma se c’è un compagno più libero di me, la palla la devi passare. E se c’è l’amicizia fuori dal campo, questo è più semplice: i rapporti umani aiutano a migliorare il clima e i risultati
Tu sei stato e sei un esempio di forza atletica, di voglia di lottare e di vincere, di combattere fino all’ultimo. Il tuo è un ruolo che va oltre i numeri e le statistiche. Che consigli daresti ai giovani di oggi che vogliono fare sport ad alti livelli
La prima cosa è la passione, la seconda è capire se si è adatti a quello sport. Poi ci sono gli insegnanti, gli allenatori che ti devono saper motivare. Tutti abbiamo un talento per fare qualcosa di bello: è importante saperlo scoprire. Vale per lo sport, ma vale anche per tanti aspetti della nostra vita
C’è un paese in cui sei un Dio, un mito, una leggenda: Israele
Sono stato per la prima volta a Tel Aviv per una finale di Coppa delle Coppe nel 1966: si giocava in un’arena all’aperto in un’atmosfera incandescente. Da lì a Tel Aviv ci sono tornato quasi ogni anno. Gli israeliani apprezzavano il mio modo di giocare, il rispetto che avevo in campo: quando vado in Israele mi accolgono sempre con grandi feste. E capita spesso anche a Milano alcuni israeliani mi incontrano e mi chiedono foto
Tu sei un idolo, un totem, una leggenda per tanti: chi sono stati i tuoi idoli dello sport
Il primo che mi viene in mente è Muhammad Ali per la sua incredibile storia, per la sua voglia di essere il campione del mondo, per la sua lotta al razzismo e per i valori che ha portato avanti. Ma ce ne sono altri: Pietro Mennea, unico bianco a primeggiare nella velocità, una serietà impressionante. Poi Sara Simeoni, una persona splendida, Nino Benvenuti, campioni della mia generazione
Abbiamo lasciato per la conclusione di questa splendida intervista altri due momenti epici della tua carriera. La prima è la tua entrata nella “Hall of Fame Naimsmith Memorial”, unico italiano. Era il 5 Settembre 2003.
Un momento fantastico, indimenticabile. Ero in Svezia con la nazionale, mi sono incontrato con Dan Peterson a New York e siamo entrati nel salone di Springfield. Quel giorno con me c’erano James Worthy, Robert Parish, Earl Lloyd, MEadowlark Lemon. Mi ha presentato Bob McAdoo. A volte guardavo la cupola di Springfield e vedevo i volti di tutti i fenomeni del basket, vedevo la storia e in quella storia c’ero anch’io
Il secondo momento è la partita contro tuo figlio Andrea, tu con Trieste, lui con Varese, per una storia che continua. Un evento unico nella storia dello sport italiano
Giocare contro mio figlio mi ha fatto anche sentire vecchio. C’erano televisioni anche da Tel Aviv. Lui era molto tranquillo. Io durante il riscaldamento guardavo lui, in quel momento ero un giocatore, ma anche un padre. Durante la partita prendo un rimbalzo e sento un colpo alla schiena da parte di uno che vuole rubarmi il rimbalzo: era mio figlio Andrea. Ho pensato: “è proprio bravo, non ha paura neanche di suo papà”. E’ stata una bellissima sensazione. Poi Andrea ha dimostrato quanto forte era, e come me ha vinto l’europeo in Francia. E forse era più bravo di me, poteva giocare in due-tre ruoli
A Gennaio compirai 70 anni, i 70 anni del numero uno della storia del basket italiano. Chi è Dino Meneghin oggi?
Una persona che ama ancora la pallacanestro e che soffre ancora quando guarda in televisione Milano, Varese e Trieste. Collaboro con la FIP come presidente Onorario. Questo sport mi piace ancora tantissimo
Grazie Dino, è stato un infinito piacere e un infinito onore, incontrarti ed ascoltarti
Grazie a te, è stato un piacere
Immagine di copertina: https://www.sportmediaset.mediaset.it/basket/basket-lolimpia-milano-ritira-la-maglia-di-dino-meneghin_11353839-201902a.shtml
2 Comments
Semplicemente GRANDE
Mi sento fortunato e onorato di aver affiancato e accudito per 40 anni fra Varese e con la Nazionale un personaggio unico e speciale come Dino Meneghin.
Grazie Dino.