RECENSIONE DI A.C.
Il più grande. Sul ring e, per molti aspetti, anche fuori dal ring. È d’obbligo il superlativo per Cassius Clay – Muhammad Ali, un personaggio che ha travalicato i confini dello sport per entrare di diritto nella storia del costume e della politica degli Stati Uniti. Non stupisce, dunque, che su di lui siano state scritte decine di libri, ai quali ora se ne aggiunge un altro, di buonissimo livello: «Muhammad Ali. Il guerriero che sapeva volare» (Diarkos editore, pag. 298, €18).
Ne è autore Massimo Cecchini, giornalista che dal 1993 lavora presso «La Gazzetta dello Sport» e vanta un curriculum professionale di tutto rispetto, essendo stato, tra l’altro, docente di giornalismo presso la Luiss di Roma e la RCS Academy di Milano.

Bust photographic portrait of Muhammad Ali in 1967. World Journal Tribune photo by Ira Rosenberg.
C’è un rischio che Cecchini sa di correre scrivendo di un personaggio così grande, verso il quale non nasconde la propria simpatia, «quello di farlo diventare un incrocio perfetto tra santità, genialità e supereroismo». Ma è un rischio che l’autore evita abilmente, non nascondendo i lati meno limpidi o più controversi della storia umana e sportiva di Ali. Ma proprio questo rispetto della verità storica rende ancor più grande, perché più credibile, la figura umana e sportiva del campione.
Cecchini ripercorre tutta la carriera del campione, dalla nascita a Louisville, nel Kentucky, il 17 gennaio 1942, sino alla morte a Scottsdale, Arizona, il 3 giugno 2016. Lo fa in otto capitoli, anzi in otto «round», il numero di quelli disputati da Ali nell’incontro forse più importante della sua carriera, quello contro George Foreman nel 1974.
Parte dagli esordi, Cecchini. Si sofferma sulla vittoria alle Olimpiadi di Roma 1960, segue gli incontri di avvicinamento a quel titolo di campione del mondo dei pesi massimi che il pugile di Louisville dichiarava come obiettivo irrinunciabile sin da ragazzino. Un titolo che conquista il 25 febbraio 1964 sconfiggendo per KOT il detentore Sonny Liston e difende poi contro lo stesso Liston. Proprio a proposito di questi due incontri Cecchini evita il rischio di cui si parlava sopra. Non nasconde, infatti, i dubbi sulla regolarità dei due match, il primo un po’ snobbato dal campione in carica e probabilmente condizionato da interessi esterni tutt’altro che limpidi (assai frequenti, per altro, nella boxe del tempo), il secondo conclusosi al primo round per un «pugno fantasma» che suscitò molti sospetti.
Cecchini segue passo passo la carriera di Ali. Dà ragione della sua conversione all’Islam, con il conseguente cambiamento di nome. Non nasconde, l’autore, i rapporti non sempre chiarissimi con l’organizzazione Nation of Islam e con il suo capo, il discusso Elijah Muhammad, per seguire il quale Ali si stacca da Malcom X (e poi se ne pentirà). Diventa da quel momento un «pugile contro», che molti americani bianchi e cristiani non vogliono riconoscere, tanto che diversi avversari, presentando la sfida con Ali, dichiarano di voler «riportare in America» il titolo di campione del mondo. Sul ring, comunque, Ali è sempre il più forte.
La sua carriera, che sembrava inarrestabile, si ferma però improvvisamente quando rifiuta l’arruolamento per la guerra in Vietnam. Una scelta che lo priva del titolo mondiale e lo fa apparire come un nemico degli USA, ma nello stesso tempo lo trasforma in un punto di riferimento, e non solo in America, per chi a quella guerra si opponeva. Ci sono motivi religiosi nella scelta di Ali (lo riconoscerà, alla fine, anche la Corte Suprema), ma c’è anche un preciso significato politico, sintetizzato nella frase: «Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro».
Dopo il periodo di squalifica e segregazione sportiva, arriva il trionfale ritorno, prima contro Joe Frazier, poi, titolo in palio, contro George Foreman, in un match combattuto in Africa per motivi di borsa, certamente, ma anche per un ideale ritorno alla terra dei padri.
C’è molto pugilato nel libro di Cecchini, che dedica spazio agli avversari di Ali, ai minori, ma soprattutto ai maggiori, e si sofferma anche sul destino di molti di questi pugili, un destino spesso triste se non addirittura tragico, ma in alcuni casi anche con curiosi risvolti extrasportivi, come per Ken Norton diventato Mandingo nel cinema o per Joe Brugner attore in alcuni film con Bud Spencer e Terence Hill.
Ma c’è anche molta storia nel libro di Cecchini. La guerra del Vietnam, come già detto, le tensioni sociali, il razzismo, le ingiustizie verso i più deboli. Ma c’è soprattutto Muhammad Ali, con i suoi vizi, il suo coraggio, la sua generosità, la sua dignità. Quella dignità per cui si commosse il mondo intero quando, nonostante il morbo di Parkinson già in fase avanzata, Ali si esibì some ultimo tedoforo incaricato di accendere la fiaccola olimpica ad Atlanta 1996.
Un libro sportivamente ricco e avvincente, quello di Cecchini, umanamente coinvolgente, socialmente stimolante, soprattutto in questo tempo in cui negli USA, e non solo, razzismo e discriminazioni sono prepotentemente riesplosi.