ARTICOLO SCRITTO DA MATTIA LASIO
‘’Lì sta l’orribile e il meraviglioso. Non sarebbe poi niente se solo non si avesse di fronte l’infinito’’.
Alessandro Baricco
Così scrive Alessandro Baricco, noto narratore nostrano, in uno dei suoi libri di maggior successo intitolato “Castelli di rabbia”. Tali parole non possono non essere applicate anche allo sport, tra i settori più importanti e formativi della esistenza di un individuo, che è proprio una perfetta commistione di un qualcosa di orribile e meraviglioso, di ombra e di luce, di fatiche che conducono a un infinito per il quale val la pena patire e spendere tempo e fatica.
Tempo e fatica, elementi necessari per poter praticare l’atletica, sia a livello amatoriale che professionalmente. Senza queste due virtù, punti cardine di una disciplina così antica e nobile, è faccenda ardua compiere anche un solo passo.
Passo fondamentale per iniziare, fondamentale per avvicinarsi a un mondo ricco di storie e aneddoti che affondano le proprie radici nel quotidiano. E fu nella consueta quotidianità che il campione Olimpico nella città eterna di Roma nel 1960 sui 200m Livio Berruti cominciò la sua splendida avventura nel mondo del podismo: torinese, classe 1939, amava il giuoco del tennis ma le prestazioni ottenute in ambito atletico lo convinsero a proseguire su tale via, scelta che si rivelò decisamente azzeccata ed indubbiamente proficua. Spesso si abusa del termine ‘’fenomeno’’, del termine ‘’talento’’ per individui che, in realtà, di tali caratteristiche hanno ben poco. Ma nel caso di Livio Berruti tali nomee sono più che meritate e perfettamente adatte a ciò che ha compiuto nel corso della sua carriera sportiva.
Berruti era un talento, un vero e cristallino talento, perché a lui correre veniva facile e facile lo faceva apparire a chi lo seguiva con ammirazione e un pizzico di sana invidia per le potenzialità che il Buon Signore gli aveva donato. Falcata elegante, sinuosa, in totale simbiosi con la pista che sembrava non sentire sotto le sue scarpette chiodate tanto era agile e incisiva la spinta. Spinta implacabile che appariva distante dalla fatica e dalla pesantezza che, inevitabilmente, la corsa implica. Piedi ottimi, esplosivi e rapidi: i piedi rappresentano la croce e la delizia di ogni podista, sono il punto di forza e il fiore all’occhiello di chi li possiede energici e la croce di chi, invece, deve lavorarci giornalmente con meticolosità e dedizione. Le Olimpiadi di Roma del 1960 furono il momento più importante ed elevato della carriera di quello che, all’epoca, era un giovanissimo Berruti: lo sprinter torinese, studente – dopo una formazione liceale classica – in quel periodo nella Facoltà di Chimica nella quale successivamente andò a laurearsi, dopo aver superato brillantemente e con facilità le batterie, nell’arco di un paio di ore ottenne la qualificazione per la finale dei 200m nei quali andò a vincere e a stabilire quello che, in quel momento specifico, significava il primato mondiale ovvero 20”50 con il cronometraggio manuale, non essendo ancora in uso il cronometraggio elettrico.
Berruti, 1,80x66kg, non sbagliò nulla mostrandosi impeccabile, recitando il ruolo di padrone di casa nella maniera migliore possibile, piazzandosi in prima posizione davanti ai più muscolati e ‘’potenti’’ sprinter statunitensi: occhiali scuri dai quali non traspariva alcuna emozione e stato d’animo del ventunenne azzurro, corsia cinque la sua e uno Stadio Olimpico gremito e letteralmente in tripudio per quella che fu una della pagine di sport più felici e significative dello sport italiano. Corsia cinque quella di Berruti, pettorale 596, una partenza dai blocchi ottima che portò il duecentista in ottima posizione già dalla curva dei primi 100m. La seconda parte di gara si rivelò perfetta e di una incisività unica, contraddistinta da una maturità e da una esperienza degne di un veterano nonostante l’azzurro fosse poco più che ventenne: il longilineo Berruti, supportato da una forma elevatissima, fu autore di una progressione nel rettilineo finale – specialmente negli ultimi 50 metri – che gli permise di vincere la medaglia d’oro, nella manifestazione più ambita e sognata da ogni atleta. Secondo classificato l’americano Lester Carney, terzo sul gradino più basso del podio il francese Abdou Seye. Nulla poterono gli avversari contro un Berruti in grande spolvero, venuto fuori perentoriamente nell’ultimo quarto di gara, andandosi a piazzare davanti ai diretti concorrenti ritenuti, prima dello svolgimento della finale dei 200m, più accreditati rispetto al giovane e concentratissimo rappresentante della velocità italiana.
L’Italia intera, una Italia profondamente differente moralmente e umanamente da quella attuale, si ritrovò ad applaudire e ad esultare in toto per un ragazzo presentatosi alle Olimpiadi come outsider ma capace, tramite una gestione dei tre turni di gara saggia e lucida, di ribaltare totalmente i pronostici andando a fare parte di diritto dell’Olimpo dello sport. Era una Italia che sapeva sorprendersi e desiderosa di sorridere, dopo le ferite di un ventennio fascista e di un terribile secondo conflitto bellico mondiale le cui ferite non si erano ancora del tutto rimarginate. Era una Italia che seppe emozionarsi grazie a un ragazzo educato ed elegante, dai modi gentili e raffinati, la cui corsa leggera e colma di signorilità regalò una gioia che a distanza di sessant’anni, e di tantissima acqua sotto i ponti, sa ancora colpire e destare sincera ammirazione.
Foto di copertina: https://www.corriere.it/sport/20_settembre_03/livio-berruti-60-anni-fa-l-oro-200-giochi-roma-cosi-l-angelo-dell-atletica-volo-leggenda-48a00408-eda4-11ea-8e1d-a2467c523c28.shtml (FOTO: Ansa)