RECENSIONE DI A.C.
Il calcio e la guerra. I giochi della politica e un campionato impossibile da completare. Giocatori chiamati alle armi e uno scudetto assegnato a tavolino con quattro anni di ritardo. C’è tutto questo nel libro di Alessandro Bassi «1915 Dal football alle trincee», Bradipolibri editore.
Difficile dire se sia più un libro di storia o un libro sul calcio. Di sicuro è l’uno e l’altro. Narra le vicende che si svolgono tra il 28 giugno del 1914, giorno dell’attentato di Sarajevo, e il maggio del 1915, quando l’Italia pose fine alla sua neutralità ed entrò in guerra a fianco dell’Intesa, ossia Gran Bretagna, Francia e Russia, contro gli imperi centrali della Triplice Alleanza, Austria-Ungheria e Germania, con cui era precedentemente alleata.
Il suo autore lo definisce «un libro strano», proprio per la commistione tra la storia ufficiale – politica, militare, diplomatica – e quella del calcio. Ma è una «stranezza» che risulta piacevole ed istruttiva. Sul piano storico, la narrazione di Alessandro Bassi si fonda sull’analisi attenta e accurata dei documenti dell’epoca, soprattutto gli scambi epistolari tra il governo italiano e le sue varie articolazioni, ministri e ambasciatori, e i governi stranieri, sia dell’Intesa che dell’Alleanza.
È noto che, quando l’Austria dichiarò guerra alla Serbia (28 luglio 1914) l’Italia rimase neutrale, non ritenendosi obbligata ad intervenire in base alle clausole del trattato di alleanza, ma anche per l’impreparazione del suo esercito.
Per un intero anno, il governo italiano fu combattuto tra la possibilità di perpetuare tale neutralità, in cambio di promesse di vantaggi territoriali che l’Austria però non garantiva in maniera soddisfacente, e l’ipotesi di schierarsi invece al fianco dei nemici dell’Austria-Ungheria, i quali, almeno formalmente, sembravano disposti a garantire quei vantaggi territoriali che l’Italia reclamava, anzitutto Trento e Trieste, poi la costa istriana e dalmata e il porto di Valona in Albania. Alla fine sarà questa la scelta del governo italiano, non senza le ben note polemiche tra interventisti e neutralisti, che in diversi casi sfociarono in scontri di piazza con morti e feriti. Tutto ciò nel libro è documentato e descritto, con maggiore dovizia di particolari rispetto a quanto contenuto nei tradizionali manuali scolastici.
In questo contesto generale si inseriscono le vicende calcistiche. Si parte con l’ultimo campionato prima del conflitto: scudetto 1913-1914 conquistato dal Casale, vittorioso in entrambe le gare di finale contro la Lazio.
Segue il campionato 1914-1915, che si svolse con sostanziale regolarità nella prima fase, ma poi molti giocatori dovettero rispondere alla chiamata alle armi e schierare le formazioni diventò sempre più complicato. Alla fine, nel maggio del 1915, il calcio si dovette arrendere alla guerra: le ultime partite non si disputarono e di fatto non ci fu nessun vincitore. Solo nel 1919 verrà assegnato lo scudetto al Genoa, ritenuto la squadra favorita per la vittoria finale, uno scudetto ottenuto a tavolino, non conquistato matematicamente sul campo.
Ma c’è anche altro calcio, non meno importante, nel libro di Alessandro Bassi. Come l’ultima partita ufficiale, contro la Svizzera, della nazionale italiana prima della guerra. Ma soprattutto le partite organizzate per raccogliere fondi a favore delle popolazioni delle città italiane irredente, Trento e Trieste, e a favore del Belgio, invaso dalla Germania nonostante la sua neutralità. Un’iniziativa calcistica del tutto particolare, in questo senso, è quella che si svolse nei primi giorni del 1915: un doppio confronto, prima a Milano poi a Torino, tra la nazionale italiana e una selezione di giocatori di Francia e Belgio, «che avevano per alcuni giorni abbandonato le trincee per ritornare ad indossare, al posto della divisa militare, quella da gioco». Direi un momento di pace e di fratellanza prima di lasciare definitivamente spazio alle armi e alla morte.
Alessandro Bassi ha pubblicato il suo libro nel 2015, in occasione del centenario della Grande Guerra. «Un omaggio doveroso – scrive lui – a chi in quelle giornate, in quei mesi, dedicò se stesso all’Italia e al nostro futuro». Un omaggio sincero, documentato, e privo di quella retorica inutile che ha contraddistinto non tutte, ma molte delle celebrazioni di quel Centenario.