RECENSIONE DI A.C.
Claudio Marchisio è stato un ottimo giocatore di calcio. Nato a Torino, è entrato nel settore giovanile della Juventus che era ancora un bambino e nella Juve ha compiuto tutta la sua carriera, con due sole eccezioni: un anno in prestito all’Empoli, nel 2007-2008, e un campionato, quello conclusivo, con lo Zenit di San Pietroburgo. Il resto, solo Juventus, con cui, esclusa la Champions, ha vinto tutto quello che c’era da vincere: un campionato di serie B, sette scudetti in serie A, quattro volte la Coppa Italia, tre volte la Supercoppa. In più il campionato russo con lo Zenit. Vanta anche 55 presenze nella Nazionale maggiore, con un argento europeo, senza dimenticare la Nazionale Olimpica e l’Under 21. Certamente un grande giocatore, anzi un campione.
Nel 2016, a carriera ancora in corso, ha pubblicato il suo primo libro, Nero su Bianco, cui è seguito, nello scorso ottobre, per Chiarelettere Editore, Il mio Terzo Tempo. Ed è di questo che vogliamo parlare.
Prendi in mano il libro firmato da un ex calciatore e pensi, quasi inevitabilmente, di trovarci la descrizione di partite di calcio, i momenti dell’entusiasmo per le tante vittorie, forse alcuni particolari inediti sulla sua vita sportiva, sui compagni di squadra, sugli allenatori, i dirigenti, i tifosi. La vita del calciatore, insomma, e tutto quello che gli gira attorno.
Invece, appena inizi a leggere, sin dall’introduzione, ti accorgi che questo libro parla d’altro. Il calcio ovviamente c’è, ma è quasi sullo sfondo. Marchisio racconta come e quando si è accostato al calcio e come poi ne abbia fatto la professione e la passione della sua vita; insiste sull’importanza della sua famiglia e dell’ambiente in cui è cresciuto, riflette sul rapporto con i compagni dello «spogliatoio», ricorda i grandi campioni con cui ha giocato, soprattutto quelli che sono stati grandi in campo e fuori, ma non si sofferma sui tanti trionfi della sua carriera juventina. Anzi, le uniche partite che descrive un po’ in dettaglio sono due sconfitte: quella della Juve con il Mantova in serie B e la finale dell’Europeo contro la Spagna nel 2012. Per il resto, nei nove capitoli del libro, pur prendendo spunto dal calcio, Marchisio affronta argomenti di tutt’altro genere e di ben più consistente spessore. Esprime le sue idee e le sue riflessioni di uomo ormai maturo su tanti aspetti delle nostra società. Parla di scuola e si chiede se debba essere meritocratica per far emergere i migliori o cooperativa per recuperare anche chi parte da una situazione di svantaggio. Affronta il tema del razzismo, nello sport e nella società, estendendo poi il discorso ai migranti, ai morti in mare, ai lavoratori sfruttati, a tutti i discriminati, per il colore della pelle o per le loro tendenze sessuali. Ha il coraggio di toccare un tema delicato come la violenza da parte di alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine, riferendosi al caso americano di George Floyd, ma anche a episodi di casa nostra. Parla dei rapporti di genere all’interno della famiglia e della società. Affronta, dati scientifici alla mano, il tema del cambiamento climatico e insiste sulla necessità di salvare il pianeta per trasmetterlo ancora vivibile ai nostri figli e nipoti. Tante riflessioni, tante domande, espresse con linearità, con semplicità, ma con profonda partecipazione.
Non è frequente che i calciatori si esprimano su argomenti estranei al loro mondo. E non è scontato che chi li applaude allo stadio sia disposto ad accettarli in questa nuova veste. Marchisio ha scoperto sulla sua pelle, quando ancora giocava nella Juve, che il ruolo che la società attribuisce ai calciatori è ben altro. Era il 23 maggio 2017 e Marchisio ebbe l’ardire di inviare con il suo smartphone una foto che documentava l’ultima tragedia dei migranti nel Mare di Sicilia. Molti tifosi non approvarono la sua scelta. «Sembrava che parlare di qualcosa che non fosse calcio ad una settimana dalla finale di Champions League, fosse un sacrilegio. Dovevo pensare a giocare e basta». Riflettendo su quell’episodio, Marchisio nel libro usa parole molto nette: «In molti casi noi calciatori eravamo considerati né più né meno che degli intrattenitori che dovevano offrire uno spettacolo e rigorosamente fermarsi lì. Noi eravamo gli animatori del circo ma fuori dal tendone non era cosa nostra. Non potevamo nemmeno pensare liberamente o, se ardivamo farlo, dovevamo tenere il silenzio».
A questo ruolo imposto dalla società, Marchisio si è ribellato già da calciatore, con quella eleganza e misura che gli sono proprie, ma con altrettanta chiarezza. Si ribella, a maggior ragione, oggi, anche per le responsabilità che sente nel suo ruolo di padre. Lo fa sui social e nella rubrica che tiene nelle pagine torinesi del Corriere della Sera. Lo fa, soprattutto, in questo libro nel quale, scrive, «c’è molto calcio perché il calcio è la mia vita, ma c’è anche molto della mia vita senza il calcio… c’è un pezzo di me e di quello che penso». Marchisio uomo, insomma, non solo calciatore.