RECENSIONE DI A.C. Professore di letteratura Italiana e Latina e grande appassionato di sport
Non è semplice raccontare la propria vita. Soprattutto se sei stato un campione assoluto, una leggenda dello sport nazionale. È facile perdere la misura, esaltarsi troppo o, viceversa, sminuirsi eccessivamente. Franco Baresi evita entrambi questi tranelli. Li stoppa con classe, come faceva da difensore con gli avversari lanciati verso la porta del Milan.
«Libero di sognare» si intitola il suo libro, edito da Feltrinelli. Un libro di piacevole lettura, scorrevole, coinvolgente, e impostato in maniera intelligente, per molti aspetti inconsueta.
Il volume si snoda in otto capitoli, i cui titoli sintetizzano le doti e i sentimenti su cui il grande campione del Milan ha impostato la sua carriera: coraggio, fantasia, cambiamento, dolore, sacrificio, lealtà, rivoluzione, tolleranza.
C’è un filo rosso che lega questi capitoli. Otto incipit che raccontano, tutti insieme, uno dei momenti più importanti della storia calcistica di Franco Baresi. Non è, però, il racconto di una vittoria, di uno scudetto o di una finale di Champions. Il filo rosso che lega tutto il libro è il racconto di una sconfitta, di un errore che non si può dimenticare, di un sogno che si è interrotto proprio quando stava per diventare realtà.
Pasadena, 17 luglio 1994: Italia – Brasile, finale del campionato mondiale. Quella finale in cui l’Italia perse ai rigori e fu proprio Franco Baresi a sbagliare il primo tiro dagli undici metri. Lui che i rigori con il Milan li aveva sempre segnati. Lui che alla seconda partita del Mondiale americano, il 24 giugno, contro la Norvegia, si era rotto il menisco, era stato operato negli USA ed era riuscito a riprendere il suo posto in campo dopo soli 22 giorni dall’intervento. Lui che contro il Brasile, sino al momento dei rigori, aveva giocato una grande partita e, da vero capitano, si era assunto il compito di calciare per primo. E aveva sbagliato.
Ecco, aver scelto una sconfitta come filo rosso per raccontare la sua storia, offre un segno preciso della personalità di Franco Baresi.
Dopo ognuno degli incipit sulla finale di Pasadena, il racconto di Baresi si trasferisce nel mondo dei ricordi, incominciando da dove tutto è iniziato: Travagliato, il suo paese in provincia di Brescia. Parla a lungo della sua famiglia, dei genitori e dei fratelli, del casale «che si sviluppava a ferro di cavallo intorno all’aia», in cui vivevano sei famiglie di contadini. Quello dei Baresi era un appartamento modesto, senza acqua calda corrente, con il bagno all’esterno, a un angolo del casale, e con due sole camere da letto, una per i genitori e una per i quattro figli: «io, Beppe e Angelo dormivamo assieme in un letto matrimoniale, mentre Lucia dormiva sola in un lettino separato da una tenda». Una famiglia modesta, ma di grande dignità e forte umanità.
Parla a lungo, Franco Baresi, dei compagni d’infanzia, della scuola elementare, delle partite sull’aia o sui prati appena falciati: «L’importante era giocare: passare, stoppare, tirare, tentare un dribbling o un colpo imprevedibile come i trucchi di un illusionista».
Poi arriva la squadra dell’oratorio, in cui si gioca in forma organizzata e da cui sono usciti molti calciatori, diversi dei quali, oltre a lui e a suo fratello Beppe, sono arrivati sino alla serie A. Baresi ricorda con riconoscenza tante persone che lo hanno guidato, istruito, educato. Non è nostalgia questo spazio dedicato al passato; è riconoscere che in quella famiglia, in quel paese e in quella squadra dell’oratorio si è formato il suo carattere, da lì ha tratto i valori che lo hanno guidato, in campo e fuori.
È in quegli anni giovanili che nasce il sogno della sua vita, dopo aver visto per la prima volta il calcio alla televisione. Erano i Mondiali messicani del 1970: Italia – Germania 4-3 prima di tutto, poi la finale con il Brasile. È in quel momento, nonostante la sconfitta, anzi forse proprio per questo, che il suo sogno di bambino acquista una dimensione precisa:
«Chissà cosa si prova a indossare la maglia del proprio paese a un Mondiale. Chiudo gli occhi e fantastico di essere in piedi ad ascoltare l’inno di Mameli mentre milioni di persone mi guardano in televisione. Deve essere un’emozione incredibile».
Ad una finale simile sogna di arrivare anche lui, per provare quelle emozioni e regalare a tutti gli italiani il gusto della vittoria mondiale.
Dopo i ricordi dell’infanzia, Franco Baresi ripercorre, passo dopo passo, tutta la sua carriera nel Milan: il provino a Milanello, la convocazione nelle squadre giovanili, l’esordio in serie A, in casa del Verona, quando non aveva ancora 18 anni, il primo scudetto, quello della stella, a fianco del suo idolo giovanile Gianni Rivera. Poi la doppia discesa in serie B, la rinascita con il grande Milan di Silvio Berlusconi, con allenatori prima Nils Liedholm, poi Arrigo Sacchi e infine Fabio Capello. Anni fantastici, anni da Invincibili, con tanti compagni, alcuni campionissimi, altri più modesti, che Baresi nomina con simpatia e riconoscenza per l’aiuto che da loro ha ricevuto.
E conclude la sua storia milanista con la partita d’addio, il 28 ottobre 1997, quando uno stadio gremito gli dedica l’ultimo applauso, dopo che Silvio Berlusconi aveva già deciso, prima volta in Italia, di ritirare la maglia con il numero 6: quella, nel Milan, sarà per sempre la maglia di Baresi.
Accanto al Milan, la Nazionale: il titolo di campione del mondo nel 1982 senza mai giocare, il terzo posto ad Italia 90, per finire con USA 94 e quel rigore sbagliato:
«Sono stremato come molti miei compagni. Ma sono il capitano. Perciò decido di tirare io per primo. Decido a sinistra. Poi, mentre prendo la rincorsa, vedo con la coda dell’occhio Taffarel fare un piccolo movimento proprio verso sinistra e commetto l’errore peggiore. Cambio idea, e così la calcio alta sopra la traversa. Mi accascio in ginocchio sul dischetto. A trentaquattro anni piango ogni lacrima che ho in corpo davanti al mondo intero. Piango per aver perso la finale, per il sogno infranto di quel bambino che giocava scalzo nell’aia. Piango anche per le lacrime che trattenni quella notte del ‘70».
Ci sono altri aspetti nel libro che credo vadano sottolineati.
Anzitutto il ricordo di un paio di errori, che come capitano non avrebbe dovuto commettere. Il primo è la partita di Coppa Italia con l’Atalanta, quando il Milan, in svantaggio, non restituì il pallone agli avversari che lo avevano messo fuori per fair play, ma riprese immediatamente il gioco, conquistando un rigore che lo stesso Baresi trasformò, consentendo al Milan di passare il turno. «Dovevamo ridargli la palla. Abbiamo violato una delle regole non scritte che non si dovrebbero mai violare» scrive Baresi.
Il secondo errore è il ritorno di Champions a Marsiglia, quando i dirigenti del Milan, con la squadra praticamente eliminata, ordinarono ai giocatori di non rientrare in campo, con la scusa che uno dei fari dell’illuminazione era mezzo spento: «Ero il capitano della squadra campione d’Europa e mi sarei dovuto prendere la responsabilità di rientrare assieme ai miei compagni. Ma non l’ho fatto. Ho mancato di rispetto agli avversari, all’arbitro e ai tifosi di entrambe le squadre».
Ammettere gli errori, anche se a distanza di anni, non è facile per nessuno. Baresi lo fa. Bisogna prenderne atto.
Un ultimo dettaglio, ma non insignificante. Baresi, raccontando l’epilogo della finale con il Brasile, ricorda il suo errore dal dischetto, ma non nomina il calciatore che sbagliò l’ultimo rigore, quello decisivo; dice solo «noi sbagliamo ancora».
Allo stesso modo, riferendosi alla semifinale di Italia 90 contro l’Argentina ricorda di aver calciato, e segnato, il primo rigore, ma poi non nomina i due compagni che hanno sbagliato il tiro dal dischetto negando all’Italia la finale. Un’altra dimostrazione di stile. Di classe.