Recensione di A.C., Professore di Lingua e Letteratura Italiana e Latina, giornalista e appassionato di sport.
L’unico peso massimo, nella storia della boxe, che ha concluso la carriera imbattuto: 49 match combattuti e vinti, di cui 43 per k.o. Una leggenda, Rocky Marciano. Un mito. E proprio alla riscoperta di questo mito è dedicato il bel libro «ROCKY MARCIANO», appena pubblicato da Lab DFG, nel centenario della nascita del campione. Ne è autore Dario Ricci, apprezzato giornalista di sport a “Radio 24” e “Il Sole 24 Ore”.
Quello di Ricci non è un libro di tecnica pugilistica, né si dilunga a narrare nei dettagli gli incontri sul ring. Neppure i riferimenti biografici di Rocky Marciano hanno un posto preminente. C’è anche questo, ovviamente, nel libro, ma condensato in due schede sintetiche. La prima contiene la biografia essenziale di Rocco Marchegiano, divenuto poi Rocky Marciano; la seconda è l’elenco delle 49 vittorie del campione. Ma le due schede sono poste in apertura del libro: prima della prefazione di Valentina Clemente e prima del «Prologo» con cui Ricci apre il suo viaggio.
La parola «viaggio» è utilizzata più volte da Ricci per sintetizzare il suo lavoro. Un viaggio lungo i sentieri di un mito che inizia, quasi necessariamente «da chi quella leggenda l’ha vissuta in prima persona, nel Paese e nei luoghi in cui i diretti, i ganci e i montanti di Marciano si ripercuotevano sui corpi degli avversari».
C’è l’America del primo Novecento, dunque, quella in cui sono sbarcati, da emigranti, i genitori di Rocco: Pierino (Quirino) Marchegiano, originario di Ripa Teatina in provincia di Chieti, e Pasqualina Picciuto, di San Bartolomeo in Galdo, provincia di Benevento; in particolare la cittadina di Brockton, Massachusetts, dove Rocco Marghegiano è nato il 31 agosto 1923. È una vita difficile, quella degli emigranti italiani ed anche Rocco, abbandonata la scuola, deve svolgere lavori umili per aiutare la famiglia: «incartatore di caramelle, cameriere, sguattero in cucina, scaricatore di carbone, spalatore di neve, addetto all’imbottigliamento della birra».
C’è poi l’America della seconda guerra mondiale, con Rocco, non ancora Rocky, che si arruola nell’esercito e viene inviato a Swansea, nel Galles. Quindi l’America del secondo dopoguerra, quando Rocco Marchegiano diventa Rocky Marciano e si impone come il più forte peso massimo: l’imbattibile. E lì nasce il mito.
Ci sono i luoghi in cui Rocky Marciano è ricordato, celebrato. Ripa Teatina, anzitutto, e San Bartolomeo in Galdo, i paesi dei suoi genitori. Ma c’è anche la palestra di Cinisello Balsamo, l’unica dedicata a Rocky Marciano, dalla quale, sotto la guida del maestro Pierri, sono usciti fior di campioni, tra cui Roberto Cammarelle, oro olimpico a Pechino.
Non possono mancare le persone che hanno conosciuto Rocky Marciano o che in qualche modo sono a lui collegate: gli abitanti di Ripa che lo hanno festeggiato quando è venuto nel paese di suo padre; suo fratello Peter e Joey Marciano, figlio di un cugino, nato e cresciuto in America, ma attualmente nazionale italiano di baseball. Un accostamento non casuale, quello del baseball, perché proprio il baseball, tipico sport americano, è stato la prima passione sportiva di Rocco, che solo durante la guerra ha scoperto la boxe e ad essa si è dedicato, anche perché non era stato giudicato sufficientemente agile per lo sport delle basi.
Ma è un «viaggio» con una finalità del tutto particolare, quello di Ricci: non vuole ricostruire una storia, ma insegue un mito. Ne cerca le tracce, i testimoni. E si chiede anzitutto in che cosa consista il mito di Rocky Marciano, quel mito «che ha unito Italia e America, impersonificando sogni, desideri, ambizioni di due popoli, una collettività, un’intera epoca».
Intervistato da Ricci, Dan Peterson, il grande allenatore di basket, lo sintetizza così: «un campione capace di rispettare gli avversari, dentro e fuori dal ring; uno che preferiva far parlare i pugni, e tenere la lingua a posto, senza denigrare i rivali, ma anzi rispettandoli anche nel momento in cui li metteva al tappeto».
Ma poi Ricci estende la sua ricerca. Ragiona sul senso del mito, sulla nostra necessità di esseri umani di avere storie da raccontare, miti da tramandare. E allora, in questo viaggio, tanti miti si incrociano, si sovrappongono, si confrontano. Quello di Rocky e di Ali, ad esempio, al quale Ricci dedica una attenta analisi. O quello di Rocky e Marvin “The Marvelous” Hagler, anche lui cresciuto a Brockton, pur se nato nel New Jersey. E se Brockton può vantare due pugili campioni del mondo, altrettanti ne può esibire Ripa Teatina; c’è infatti un altro Rocco, anzi un altro Rocky, oltre a quello italoamericano: Rocky Mattioli, anche lui campione del mondo, anche lui emigrante figlio di emigranti; non in America in questo caso, ma in Australia. Nulla di esagerato, dunque, se Ripa Teatina si definisce «il paese dei campioni». Ma non è strano neppure che i due Rocky abbiano le loro origini proprio qui, anzi sembra quasi un destino segnato, se già nel 1520, sotto il regno di Carlo V, «Ripa Teatina ottenne il Privilegio dei pugni, ossia il diritto di dirimere controversie civili o penali con i pugni».
Ma il «viaggio» consente a Ricci, prendendo spunto dalla guerra in cui Rocky ha maturato il suo destino di pugile, di ricordare altri pugili che dalla guerra sono stati travolti o ne hanno conosciuto gli aspetti peggiori. Harry Hertzko Haft, ad esempio, che con Rocky ha combattuto e perso nel 1949, ma la cui esistenza di ebreo polacco era stata segnata da due anni di internamento nell’inferno di Auschwitz. Peggiore ancora la sorte del romano Leone “Lelletto” Efrati, anche lui internato ad Auschwitz, dove fu picchiato a morte dai carcerieri nazisti.
Non sono divagazioni oziose, quelle di Ricci, ma testimonianze che arricchiscono il libro: «La Storia, immensa, collettiva, insensata, inumana e spesso incomprensibile» in cui confluiscono «le piccole storie, i destini, le parabole di ognuno di noi, che pure quella Storia definiscono, spiegano, raccontano».