Di Davide Lugli
Primi anni ’70, l’Uruguay attraversa una delle peggiori crisi economiche della sua storia, dove anche l’aviazione militare si trova costretta a noleggiare i propri velivoli che vengono utilizzati come charter per poter dare respiro alle proprie casse.
Uno di questi, il volo 571, parte la mattina del 12 ottobre 1972 dall’aeroporto di Carrasco con a bordo 40 passeggeri e 5 membri dell’equipaggio. La quasi totalità degli occupanti è composta dalla squadra uruguaiana di rugby degli Old Christians Club che deve recarsi in Cile per disputare una tournée. Oltre ai giocatori, al seguito della squadra, tutto lo staff al completo, alcuni famigliari e amici, tranne 2 giocatori che avevano deciso di raggiungere la destinazione con altri mezzi. Una franchigia quella uruguaiana che all’epoca vantava appena 2 formazioni ed era stata fondata pochi anni prima nel 1962 da ex allievi del Stella Maris College. Questo, però, non fermò la rapida ascesa dei Christians che in appena sei anni arrivarono a vincere il campionato e oggi sono uno dei club più blasonati del paese e del Sudamerica, con 18 titoli vinti.
Il volo prevede originariamente una rotta diretta dall’Uruguay al Cile, senza soste. La fitta nebbia delle Ande e l’avvicinarsi della notta costringe, però, l’aereo a uno scalo non previsto a Mendoza, in Argentina. Il giorno seguente, nonostante le condizioni non siano affatto migliorate, viene fatta pressione perché l’aereo riparta in quanto le leggi argentine vietano ad aerei militari stranieri la permanenza oltre le 24 ore sul proprio suolo. Le scelte da ponderare sono solo 2, tornare a Montevideo o proseguire. La prima non è nemmeno da prendere in considerazione perché comporterebbe un esborso economico da parte dell’aviazione militare per il ristoro dei biglietti e l’annullamento della tournée in terra cilena. La decisione è quindi soltanto una di fatto, la più tragica, il primo grande errore, proseguire.
La rotta scelta, almeno per il pilota Lagurara che nemmeno ha le ore necessarie per pilotare, risulta essere quella meno irta di pericoli senza però l’aver considerato una variabile. Non avendo riferimenti si deve navigare letteralmente a vista coadiuvati unicamente da meri calcoli fatti a mano e affidati esclusivamente all’uomo. E l’uomo si sa, sbaglia. Il volo si svolge regolarmente fino al passaggio su Malargue. Qua, purtroppo, arriva il secondo tragico errore.
L’aereo per un viaggio tranquillo deve attraversare un passo della cordigliera per poi scendere gradualmente verso l’aeroporto Arturo Merino Benitez in Cile. Il pilota comunica erroneamente di trovarsi sul Planchòn alle ore 15.21, in realtà i venti contrari hanno rallentato la corsa dell’aereo e gli strumenti sono del tutto inaffidabili. Guasto o errore umano? Non si sa. La velocità di crociera, alla base dei calcoli di Lagurara, ha subito un notevole rallentamento e la posizione in cui pensa di essere è errata. L’immediata comunicazione alla torre di controllo si rivela fuorviante e riporta che avrebbe attraversato il passo circa 11 minuti dopo. Invece, dopo appena 3 minuti, una seconda comunicazione avverte la torre di controllo che l’aereo si trova già sul passo e che sta procedendo a deviare per l’avvicinamento all’aeroporto. Nessuna verifica viene eseguita circa l’anomalia delle tempistiche e pertanto nessuno si accorge del macroscopico errore del pilota.
Ormai la convinzione è quella di poter scorgere sotto alle nuvole il centro abitato, invece l’aereo si trova ancora in territorio argentino e sopra la catena montuosa. Così inizia la manovra di discesa in cui perde ulteriormente quota a causa di una turbolenza. Quando le nuvole iniziano a diradarsi, piloti ed equipaggio si trovano davanti i crinali rocciosi delle Ande. Si tenta un ultimo disperato tentativo di riprendere quota, ma non c’è più nulla da fare. Sono le 15.31 del 13 ottobre 1972.
L’aereo impatta contro la montagna con l’ala destra che a sua volta taglia la coda del velivolo che si stacca e porta con se alcuni giocatori dei Christians. Il resto del gigante continua la sua corsa folle contro un’altra parete in cui perde l’altra ala e ormai ingovernabile impatta contro la terra dove si ferma gradualmente dopo circa 2 km su una piana rocciosa e nevosa. Al momento dell’impatto l’aereo si trova a 3657 metri di altezza, quando in realtà l’altimetro segna appena 2133 metri e questi ultimi, purtroppo, sono i dati in possesso della torre di controllo al quale il pilota Lagurara ha, appunto, comunicato di aver anche già sorvolato il passo. Dati completamente errati e utilizzati dai soccorsi per intraprendere le prime ricerche dopo il disastro.
I pochi sopravvissuti si trovano ad affrontare una situazione ben oltre i limiti di ogni sopportazione umana, limiti che vengono spostati di giorno in giorno. Si tratta, appunto, di sopravvivere. Il cibo è scarso, poco vino, qualche cucchiaio di marmellata e cioccolata per cena distribuiti dal capitano Marcelo Perez, la resilienza dei Christians è però più forte di tutto. Fito Strauch utilizza l’alluminio all’interno dei sedili per creare specchi ustori e sciogliere la neve, i cuscini vengono utilizzati come ciaspole. Tutti lavorano per la propria vita e quella dei propri compagni di squadra. Si creano gruppi di lavoro. Canessa, Zerbino e Methol fanno parte, per i loro studi, del gruppo medico, Harley, Paez, Storm e Nicolich di quello addetto a recuperare dai resti dell’aereo tutte le cose utili per poter avere coperte e cuscini. Un altro gruppo, infine, si occupa grazie all’invettiva di Strauch di sciogliere la neve non contaminata per ottenere acqua.
I giorni passano e le ricerche, intanto, partono male a causa dei dati errati in possesso della torre di controllo e la speranza di trovare qualcuno vivo viene ogni giorno meno. I sopravvissuti apprendono anche, grazie a una radiolina, che queste ultime sono state addirittura interrotte. Finiscono così anche i pochi e inadeguati rifornimenti, a questo punto occorre decidere il da farsi. Vivere cibandosi dei compagni di viaggio morti e sepolti nella neve o accettare un destino infausto e lasciarsi morire. Un dilemma anche religioso per alcuni dei sopravvissuti, bisogna però prendere una decisione, si tratta appunto di decidere se vivere o morire. Ad aggravare il tutto si aggiunge una valanga la notte del 29 ottobre che travolge e uccide altri 8 sopravvissuti, oltre a una tormenta di neve che costringe gli ultimi rimasti a vivere per 3 giorni al riparo all’interno della fusoliera.
Non si può, però, morire così. Si decide che è ora di scrivere il proprio destino e viene organizzata una squadra di perlustrazione che qualche giorno dopo si trova di fronte alla coda dell’aereo dove ci sono provviste e una radio, purtroppo, inutilizzabile per comunicare ma dalla quale si apprende che le ricerche sono ancora in corso, seppur nel posto sbagliato. Intanto il disgelo e l’arrivo dell’estate rende la situazione ancor peggiore, se possibile. i corpi dei morti non vengono più conservati dalla neve e cominciano a imputridirsi. La situazione è del tutto fuori controllo ed è segnata da liti ormai quotidiane dettate dalla speranza che viene via via a mancare a tutti. La decisione è una sola, provare ad arrivare in Cile per cambiare un destino che appare inevitabilmente segnato.
Il 12 dicembre, Parrado, Canessa e Visentin partono. Dopo 3 giorni Visentin viene rimandato indietro perché succede l’inaspettato. Oltre le montagne non ci sono campi verdi e fioriti, ma un’altra distesa di roccia. Si trovano in quel momento a circa 4600 metri di altezza e proseguire in 3, con le scarse provviste, mette a rischio la loro missione. Parrado e Canessa proseguono il loro viaggio della speranza, irto di ostacoli e con la certezza che in ogni modo non torneranno mai indietro. La speranza è l’ultima a morire e prosegue per altri 7 interminabili giorni prima di giungere alla prima forma di civiltà. Ce l’hanno fatta.
Il 23 dicembre il colonnello Morel avvisa le autorità della presenza di sopravvissuti del volo 571 sulle Ande e immediatamente si parte alla ricerca con 2 elicotteri. È davvero finita, gli ultimi 14 sopravvissuti del Fokker partito il 12 ottobre da Montevideo possono tornare a casa. Sono partiti in 45, sono tornati in 16, la loro agonia è durata ben 72 giorni. Lo spirito di resilienza di questi sopravvissuti non potrà mai essere dimenticato, ciò che hanno vissuto dimostra come lo spirito di squadra può tenere in vita anche in condizioni impensabili.
Oggi i Christians sono una delle squadre di rugby più titolate del Sud America, Parrado e Canessa avevano rispettivamente 19 e 22 anni quando segnarono la meta più importante della loro vita