Di Davide Lugli
Un evento viene definito certo quando si può determinare con assoluta certezza il suo verificarsi, diverso è quando si dice che un qualcosa è impossibile. Non dovrebbero esserci, in questo secondo caso, possibilità che quell’evento possa verificarsi. Ma, perché c’è sempre un ma. Un qualcosa che affascina, che cambia le sorti di una gara o della vita stessa e che con la probabilità non c’entra niente. Il cui solo verificarsi proprio nel corso della stessa disciplina e in maniera ripetitiva, farebbe impazzire qualsiasi regola probabilistica. Lo sport, in particolare, ci racconta che l’impossibile non esiste e tante volte che qualcuno o qualcosa possono anche arrivare a sovvertire un esito scontato.
A dare il classico colpo di grazia in maniera definitiva ad ogni possibile calcolo delle probabilità ci pensò nel 2002 alle olimpiadi invernali di Salt Lake City, in maniera a dir poco rocambolesca va detto, un pattinatore di short track australiano di Camden, all’anagrafe Steven John Bradbury. Ma chi era Steven? Un signor atleta, sia ben chiaro, che dal ’91 al ‘94 portò a casa una serie di medaglie olimpiche e mondiali, tra cui quella d’oro iridata vinta nella gara a squadre proprio in terra natia, da fare invidia a tanti. Cosa accadde poi ai più è sconosciuto. Ebbene sì, perché quel giovane di belle speranze che sembrava proiettato verso un futuro roseo nella sua disciplina, sparì dai radar. Almeno, lo fece fino a quel febbraio del 2002.
In realtà è giusto raccontare cosa accadde prima per capire meglio il dopo. La carriera di Steven fu letteralmente condizionata dalla sfortuna, ad essere davvero buoni per non scomodare la sacra Via Crucis. Fu segnata in particolare da due gravissimi infortuni e già prima la vita non era stata affatto facile con lui, costretto per perseguire il proprio sogno a tante rinunce e addirittura a fare i conti con la povertà. Il primo stop nel ’94, post bronzo olimpico a squadre a Lillehammer, lo porta addirittura quasi alla morte. Succede in una gara come tante della Coppa del Mondo, dove in uno scontro del tutto fortuito con il nostro Mirko Vuillermin, altro atleta che con la sfortuna aprirà un bel conto, rischia veramente la pelle. La lama del pattino dell’italiano provoca, infatti, una profonda ferita all’arteria femorale di Bradbury. L’atleta di Camden perde 4 litri di sangue e tinge di rosso la pista di Montreal. Sono necessari ben 111 punti di sutura. Se la cava, ma l’incidente e i 18 mesi di successiva convalescenza, ne bruciano irrimediabilmente il talento. Eppure, non demorde e ci riprova, torna in pista. Passano altri 4 anni e in allenamento si frattura due vertebre vicine al collo ed è costretto a un altro supplizio. Anche stavolta, manco a dirlo, si rialza e via. Le olimpiadi invernali di Salt Lake City, d’altronde, sono dietro all’angolo e complice il poco interesse per quello sport in Australia riesce ad entrare nel novero dei convocati abbastanza agevolmente.
Parlavamo di calcolo delle probabilità, quello che avrebbe già condannato chiunque ma non lui che evidentemente con la dea bendata aveva ben più di un conto in sospeso. L’occasione di rifarsi arrivò proprio alle olimpiadi del 2002, quelle per intenderci che regalarono il primo oro a cinque cerchi al “cannibale” altoatesino Armin Zoggeler. Bradbury si presentò come il classico under dog, anzi diciamo proprio che non aveva alcuna possibilità, non ci stava a dire nulla contro avversari decisamente più forti e anche più giovani. Se una cosa ci ha insegnato lo sport è, però, mai dire mai. Prende parte ai 1500 metri dove esce appena al secondo turno. Nei 1000 metri, invece, accade l’imponderabile e chi si occupa di calcolo delle probabilità si trova a dover ammettere che nello sport c’è evidentemente qualcosa capace di stravolgere qualsiasi regola in merito e che in quell’occasione ha un nome e un cognome, appunto Steven Bradbury.
Vince la sua batteria, ma deve arrendersi nei quarti di finale ai più quotati Apolo Ohno e Marc Gagnon. Una gara senza storia in cui l’australiano dimostra già tutti i suoi limiti, sia chiaro. Gagnon viene però squalificato e per Steven si spalancano le porta di una insperata semifinale, un risultato per il quale alla vigilia della rassegna olimpica avrebbe certamente firmato. In semifinale accade, ancora una volta e se possibile, l’incredibile. Lamenta già dopo il primo giro un distacco difficile da colmare dai primi, la fine della sua corsa sembra segnata. Le cadute a grappolo degli altri 3 avversari, Kim Don-Sung, Mathieu Turcotte e Li Jiajun più La squalifica di Satoru Terao, gli regalano invece la finale. L’australiano è tra i 5 che si giocheranno le medaglie, ma ancora non finisce qua. La dea bendata questa volta sembra avere in serbo qualcosa di impensabile per Steven. Il suo destino lo aspetta proprio all’ultima curva della finale.
La finale appunto. Quella che sembra da subito una chimera e che lo vede a distanza abissale quando gli avversari si danno battaglia per le medaglie arrivando in gruppo sull’ultima curva. Appunto, l’ultima curva, dicevamo, è proprio quello il momento in cui viene da chiedersi cosa stesse pensando l’australiano che in quel contesto non c’entrava proprio nulla, anzi, nemmeno doveva esserci. Aveva fatto la sua onesta gara, ci aveva provato e, parliamone, era già un successo essere lì, in quella finale, a quelle olimpiadi. Quasi 10 anni di calvario che sembravano non finire mai. Lui, che se il destino non fosse stato tanto infame, forse, avrebbe avuto un ruolo da protagonista nello short track mondiale. Eppure, proprio il destino lo aveva beffato in tutti quegli anni, gli aveva chiuso le porte in faccia, ma lui non si era mai dato per vinto. Era probabilmente già contento di quella finale, il suo unico pensiero era arrivare in fondo, non cadere.
E allora Steven, pensa a concludere la gara e a non cadere. Fai così. Piace pensare che qualcosa gli abbia detto questo in quei momenti. Pensiero o vocina, invece, che non passa per la testa dei suoi avversari, forse fin troppo scalmanati, qualcuno direbbe indisciplinati, e che vedono il traguardo avvicinarsi, la medaglia d’oro a pochi colpi di pattino. Si scannano letteralmente negli ultimi metri e proprio sull’ultima curva, Li Jiajun, Mathieu Turcotte, Apolo Ohno e Ahn Hyun-Soo, sono protagonisti di una serie di scontri che portano alla caduta di tutti e quattro i pattinatori in lotta per una medaglia. In piedi, distanziato e fuori da ogni lotta, resta il solo Bradbury che con tutta calma va a tagliare il traguardo. È primo, ha vinto l’oro, è il nuovo campione olimpico. Nessuno gli potrà mai togliere quella medaglia e quel titolo. È tutto suo e anche se la storia lo ricorderà più per la sua sfacciata fortuna che per la sua classe, vogliamo dire che non abbia meritato quel momento? Nello sport si vince e si perde con meriti e demeriti, colpa sua se gli avversari nell’intera rassegna olimpica hanno dato solo sfoggio dei secondi?
Qualche anno dopo ammetterà: “So perfettamente di essere probabilmente la medaglia d’oro olimpica individuale più fortunata della storia, ma questo non cambia il fatto che sono stato io a capitalizzare quando tutti hanno commesso degli errori.”
Bradbury vince l’oro e la prima cosa che fa è ritirarsi dalle competizioni. Non perché non voglia confrontarsi ancora con i suoi avversari, ma perché sa perfettamente in cuor suo che il destino lo ha risarcito di tutti quegli anni passati ad affrontare una salita che sembrava non finire mai. Poi lo aveva anche già annunciato prima dell’Olimpiade, sarebbe stata la sua ultima apparizione in pista quella di Salt Lake City. Quell’1’29”109 riassume il suo momento magico, la sua vita. Quella di un ragazzo che non si è mai arreso davanti alle difficoltà che via via gli si sono poste davanti. Pochi soldi, un grande sogno e il suo calvario con quel destino infame sulle sue spalle che sembrava dirgli sempre fatti da parte, smetti. Questa volta si fa da parte davvero Steven, sempre con il sorriso che ha contraddistinto la sua carriera, la sua simpatia, così viene ricordato da chi lo ha conosciuto. Qualcuno magari lo ricorderà solo per quel rocambolesco oro olimpico, qualcun altro, invece, penserà che il suo è un esempio di ostinazione e come a volte accade, prima o poi chi la dura la vince.